GIONA CHE VISSE NELLA BALENA recensione del romanzo: “L’inverno di Giona” di Filippo Tapparelli

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“L’inverno di Giona”, premio Calvino 2018, è il fortunato romanzo d’esordio del giovane autore veronese Filippo Tapparelli.
Il titolo niente ha a che fare dichiaratamente con l’analogo protagonista dell’episodio riportato nella Bibbia Ebraica; il nome è quello che invece identifica il personaggio centrale dell’intero racconto, una storia per molti versi originale e che presenta costantemente un retrogusto amaro e avvincente insieme.
Il protagonista è poco più di un bambino, coinvolto suo malgrado in vicende assai più grandi di quelle sopportabili dalle sue gracili spalle, ed il suo nome appare scelto più per quella atmosfera gotica ed insieme mistica che aleggia su tutto il testo.

Abbondano nel romanzo le brune nebbiose, le descrizioni di paesaggi, reali e irreali a un tempo, le albe mai dichiaratamente schiarenti di luce, ricordi e suggestioni che s’inframmezzano di continuo, susseguirsi di terremoti e precipitazioni materiali e metaforiche, in definitiva della Bibbia richiama semmai più certe particolari atmosfere apocalittiche, di punizione divina e trasfigurazioni paranormali.
Ma intendiamoci: malgrado le apparenze, malgrado il decorso onirico della storia, questo non è un romanzo horror o paranormale, neanche un thriller psicologico, meno che mai un pamphlet sullo sfacelo dei valori positivi della famiglia e degli affetti, o sui guasti della trascuratezza o dell’abbandono a sé stessi dei giovani nel loro delicato percorso di crescita.
Tutt’altro: Tapparelli qui e ora discetta di altro, nella sua storia parla essenzialmente di scelte, parla del valore delle scelte che chiunque deve intraprendere agli innumerevoli bivi di cui è costellata l’esistenza di ciascuno, fin dalla più tenera età. E delle relative conseguenze, sia che trattasi di scelte ben indovinate, sia che risultino assurde, incongruenti, se non addirittura fuori da ogni logica o ragione.
Lo fa con una scrittura precisa, decisa, accurata: Filippo Tapparelli si rivela qui più un accanito grande lettore prima ancora che indiscutibilmente un grande scrittore, esattamente come deve essere.

Forse l’elaborato può apparire eccessivamente descrittivo o poco fluido: è questa invece un’osservazione superficiale. Tapparelli ci offre un lavoro accurato, frutto probabilmente d’innumerevoli riscritture continue, di rifiniture mirate, un lavoro di cesello, volto non tanto a ornare quanto a sfrondare, è un lavoro di gran pregio il suo, rivela l’accuratezza come forma mentis prima ancora che come scrittura.

Filippo Tapparelli indugia sui particolari, anche quelli che potremmo considerare banali come la maniacale descrizione delle fughe su un pavimento di piastrelle o sull’esatta disposizione delle dita di una mano posata negligentemente sul proprio ginocchio: tutt’altro, si tratta invece di costruzioni narrative volte a immergere completamente il lettore nel ventre della storia, ponendolo in un superiore osservatorio ideale da dove può osservare con cura lo snodarsi della storia, in tutti i suoi dettagli.
Il tema di “L’inverno di Giona” è l’eterno dilemma tra bene e male in cui ciascuno quotidianamente oscilla, e perciò di conseguenza il romanzo parla di fare e subire, di giusto e sbagliato, di sanità e pazzia, è un romanzo multiplo quello di Filippo Tapparelli, è una storia di moltitudine di emozioni e perciò emoziona ai più, piace a tanti, avvince tantissimi, incolla chiunque alle pagine, si presta a diverse letture e rivisitazioni, e però il tutto riconduce, con semplicità e maestria, all’estrema essenzialità dell’esistenza umana.
Non è più un bambino, non è ancora uomo, Giona: e nella sua breve esistenza, cresciuto dal suo unico parente, il nonno Alvise, non ha mai provato nulla più di un sacco di botte elargitegli con spietato intento pedagogico dal vecchio, e nemmeno un ricordo.
Perché tanto ha fatto il suo educatore, da plasmarlo secondo la sua insana volontà, togliendogli i ricordi, strappandogli il passato e sostituendo il tutto con la paura, una paura folle, irrazionale, pervicace e inestinguibile.

Tant’è che altro non sa fare, il povero ragazzo, che trovare pace nel dolore, martoriandosi la punta delle dita con le unghie.
Ha solo un nemico, dopotutto, Giona, ed è appunto suo nonno, letteralmente un emblema del Male, che gli impedisce con la sua malsana persona la scelta di vivere liberamente la propria umanità.
È un nemico immane, il vecchio, potente, perché è il capo temuto e riconosciuto dall’intera piccola comunità montana in cui si trova la sua casa; gli altri paesani, sarebbero anche disponibili a mostrarsi umani, caritatevoli, nei confronti del giovane, a condividerne ricordi ed esistenza, ma il carisma, la violenza, l’autorevolezza del vecchio è spauracchio sufficiente a farli desistere, loro malgrado.
Quel nemico, in ultima analisi, Giona deve affrontare, una volta messo alle strette proprio dal vecchio, dinanzi all’ultima insana, sporca, abietta, estrema scelta.
Per farlo, e per vincere, per ucciderlo e liberarsene e liberare il paese intero, per riconquistare sé stesso e la propria coscienza sepolta nel dimenticatoio, deve compiere un atto coraggioso e rivoluzionario insieme, un percorso di crescita e di consapevolezza.
Deve cioè terminare di rifugiarsi una volta per sempre nell’oblio soporifero della quotidianità rituale, assurda e brutale, come può essere ad esempio il forzare le dita forti nel piegare rami intrecciati a costruire gerle inutili, destinate a trasportare il vuoto.

Deve lasciare il rifugio sicuro del ventre della balena, farsi vomitare sulla riva dal grosso pesce, un’interiorità che gli è stato utile per troppo tempo, per anni, per ottenebrargli i ricordi, allorché intende che sono proprio questi, da tempo rimossi, i giusti terapeutici mentori per il riappropriarsi della propria esistenza.
Perciò la rinascita di Giona, e la sua liberazione, sorprende ed è stupefacente insieme
Il rifugiarsi di Giona nel ventre della balena, infine, non è stato per niente un’evasione da una realtà difficile, una via di fuga, un escamotage per venir meno alle proprie responsabilità, tutt’altro, è stato essa stessa una scelta, ma una scelta di martirio.
A un bambino però, non gli si può accollare un martirio.
Un bambino ha in sé la saggezza innata del Bene, prima che gli adulti si accordino nell’estirpargliela.
Un bambino non martirizza, non fa male, non può, per definizione stessa, un bambino aiuta, specie se gli è espressamente richiesto.
Gli adulti, che bambini non sono più, questo non lo capiscono, lo hanno rimosso dai loro ricordi, non si fanno scrupoli di versare sofferenza anche nell’animo di un innocente.
Aiutare però stanca; e allora il giovane anela il riposo, il riparo; dopotutto un giovane altro non è che un seme, e i semi riposano al meglio sotto la neve, durante l’inverno, l’inverno di Giona.
In attesa della primavera, quando dal terreno, liberato dalla neve, puoi raccogliere sassolini.

E lanciarli felicemente in alto, finalmente.

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