L’isola che non c’è – recensione del romanzo Delitti senza castigo – di Loriano Macchiavelli

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“Delitti senza castigo” segna il ritorno in libreria di Loriano Macchiavelli, il noto scrittore emiliano, poliedrico e multiforme, con il suo personaggio a mio parere forse meglio caratterizzato, Sarti Antonio, poliziotto in servizio presso la questura di Bologna.
Machiavelli ha scritto tanto, e bene, e di vario genere, talora anche a quattro mani in simbiosi con un altro compagno d’identiche vedute esistenziali, come lui emiliano fino al midollo, il cantautore Francesco Guccini.

A torto, a mio modesto parere, certa critica definisce tout court “gialli” i romanzi con protagonista il suo insolito questurino, personaggio forse banale, un vinto dalla vita, ma talmente serio e dignitoso da non accorgersene lui stesso neanche se glielo fanno notare.

Sarti è una persona limitata, semplice, di scarso acume investigativo, ma a modo suo è la quintessenza della pulizia morale, della correttezza e della giustizia; come il suo autore è anche lui originario dell’Appennino emiliano, e perciò pregno di valori semplici e cristallini come l’acqua sorgiva delle sue montagne.
E’ personaggio vero, reale, magnifico e sontuoso insieme quando inalbera la sua onestà, la sua cocciutaggine, il suo non indietreggiare davanti a niente e a nessuno quando convinto di essere nel giusto, nonostante quello che pensano i suoi superiori e i suoi sodali: l’eterno studente/ricercatore/consigliere e suggeritore personale, Rosas, mezzo cieco come una talpa, e il fedele sottoposto autista dell’auto civetta n. 28, l’agente Felice Cantoni.

A parer mio, non di “gialli” si tratta, ma di ben altro; tramite Sarti, Macchiavelli ci parla essenzialmente dell’amore croce e delizia della sua esistenza: l’Emilia, e Bologna in particolare.
Il filo conduttore dei presunti gialli di Sarti Antonio è la città emiliana, che Macchiavelli, pur nativo di Vergato sull’Appennino, ama visceralmente come e più di se stesso.

E però la Bologna che Macchiavelli ama è cambiata, non è più la sua Bologna, non è più Bologna la dotta, con la sua università plurisecolare, la sua cultura, la sua avanguardia artistica.
Ha perso con gli anni i connotati di città aperta ed accogliente, città delle idee nuove, originali e innovative, della libera diffusione delle stesse, città di lettere e di arte, di politica e di incontri, di vita notturna passeggiando a lungo di notte sotto i portici, di discussioni e filosofia, di donne e amore per la vita.
Non è più Bologna la grassa, città del buon cibo emblema del vivere conviviale e bonario, delle osterie come punto di aggregazione sociale al di là di ogni censo, luoghi di incontri e di scambio umano e multiculturale, Bologna accogliente con il welfare all’avanguardia, tutta per i diseredati, Bologna la rossa, Bologna città della Resistenza nata e cresciuta nei valori della Resistenza, Bologna isola felice.

La Bologna capoluogo dell’Emilia ingegnosa e operosa, con gli operai che producevano ricchezza e ne condividevano i frutti, l’Emilia della Ferrari, della Maserati, della Lamborghini, l’Emilia del Parmigiano reggiano e del prosciutto San Daniele, l’Emilia degli agrari e della terra ai contadini, l’Emilia delle coop rosse e della pace sociale, l’Emilia che funziona, l’Emilia esemplare, fiore all’occhiello della sinistra in Italia.
Bologna non è più un’isola felice, non è felice, e si dubita che tornerà ad esserlo.

Sarti Antonio non è che un testimone di Macchiavelli; davanti ai suoi occhi di questurino sono passati tutti gli eventi delittuosi che hanno fatto della città una metropoli ferita a morte, troppe volte violata: dalla strage dell’Italicus a quella del rapido 904, dalla Uno bianca all’aereo di Ustica, fino all’ultimo, sporco, estremo insulto alla città e al Paese, la strage della stazione del 2 agosto 1980.
Ferite gravi, da cui è difficile riprendersi, e la città non si è mai ripresa, benché il “…cardinale Biffi l’abbia definita città sazia e disperata”, come riporta Macchiavelli stesso.

Bologna come la intendeva Macchiavelli non esiste più: perciò Sarti ne rispecchia l’identità, trascina per la città la sua colite psicosomatica che gli ricorda perennemente le ferite profonde alla sua città, alla inutile, disperata ricerca più che dei malviventi di un bar dove sappiano fare un buon caffè come Dio comanda.
Quando un suo amico, uno dei pochissimi che ha, un clochard semplice di nome Settepaltò è aggredito e picchiato a sangue, Sarti si ribella, il suo senso della giustizia a gran voce pretende la giusta riparazione a quella che considera un’infamia, un pestaggio ancora più grave perché portato a danno di uno degli ultimi della scala sociale, proprio per questo più caro a Sarti.

Da notare che il personaggio di Settepaltò non è inventato, è realmente esistito, ben vivo nella memoria storica dei bolognesi doc. Settepaltò (o Sette cappotti), era un vagabondo, folkloristico personaggio bolognese. Il suo nome nasceva dal fatto che, in qualsiasi stagione, portava uno sull’altro sette cappotti. Viveva sgomberando cantine e solai e raccogliendo cartoni da rivendere. Girava per la città con una bicicletta sulla quale caricava ogni cianfrusaglia raccolta. Indossava un casco da cantiere per proteggersi dalle radiazioni che, secondo lui, danneggiavano le persone. Ogni tanto bruciava davanti a casa il cappotto più esterno perché troppo impregnato di radiazioni.

L’indagine, semplice e complicata insieme, porta Sarti a sollevare il velo del passato su uno dei più tragici scorci storici dell’Emilia e dell’umanità intera: le stragi naziste di Sant’Anna di Stazzena, Marzabotto e di Monte Sole, “il più vile sterminio di popolo, voluto dai nazisti di Von Kesserling, e dai soldati di ventura dell’ultima servitù di Salò, per ritorcere azioni di guerra partigiana” come recita Quasimodo nella stele commemorativa di quelle barbarie.
Non solo, le indagini di Sarti rievocano dolorosamente tanto altro, miseri fatti della storia reale italiana assai più recenti, complicità politiche, interessi di parte, e quello che è peggio nulla di inventato da Macchiavelli, tutti fatti storici noti a chiunque voglia rievocarli nella loro cruda interezza e da evitare assolutamente di far cadere nel dimenticatoio.
Cronache reali che concernono personaggi nefasti come il Maggiore delle SS Walter Reder, e le complicità, le coperture, gli appoggi di cui ha goduto, appena di recente, presso le nostre istituzioni cosiddette democratiche.
Un romanzo quindi che è una denuncia, assai più che un giallo, e non è la prima volta, è nello stile di Loriano Macchiavelli: da uomo colto sa benissimo che il titolo corretto del romanzo di Fedor Michajlov Dostoevskij è Delitto e Castigo, e non delitti senza castigo, non può umanamente sussistere un’infamia che non riceva la giusta punizione.

Macchiavelli denuncia chiaramente, e incita allo sdegno, e alla vigilanza perché la storia non si ripeta: “…di cosa ci stupiamo oggi, se non ci siamo incazzati ieri?”
E giustamente: perchè restando inerti, è facile passare da “Prima gli italiani” e “La pacchia è finita” alla “Difesa della Razza” e alla “Soluzione finale”. E’ già successo.

Loriano Macchiavelli lo dice chiaramente, per il tramite di Sarti Antonio: tornare ai valori della Resistenza, al vivere civile, alla democrazia, al rispetto delle regole, alla stretta osservanza della nostra Costituzione nata da quei fatti, è l’unica via perché Bologna, torni a essere l’isola felice, e con lei l’Emilia, e il paese intero. Che oggi come oggi, sono solo l’isola che non c’è.

Bruno Izzo

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