Tutto un mondo di perdenti – Commento del romanzo “It” di Stephen King – di Bruno Izzo

0
694 Numero visite

“It” rappresenta l’opera meglio conosciuta dello scrittore americano Stephen King, forse quella di maggior successo di pubblico e di critica, un tipico romanzo indissolubilmente legato al nome del suo autore, così come, per esempio, “Lord of the rings” sta a Tolkien oppure “For whom the bell songs” sta ad Ernest Hemingway.

Ed a ragione: si tratta, infatti, di un tomo poderoso, oltre mille pagine, che racchiudono, in sintesi, tutto l’immaginario dello scrittore del Maine.
Con “It” King si sbizzarrisce, libera tutta la propria fantasia, rende reale e concreto quel di fantastico ed incantevole racchiude il suo mondo interiore.

Fa uso a piene mani di tutti gli stereotipi della letteratura horror di cui certa critica lo ha indicato come il campione assoluto, descrive e fa rivivere magistralmente tutte le angosciose creature che turbano l’immaginario in special modo d’adolescenti e preadolescenti.
Prendono vita nelle pagine del romanzo tutti i mostri “classici”, così come milioni di persone di tutto il mondo li hanno conosciuti, grazie alla specifica letteratura e, ancor di più, grazie ad un tipo ben preciso di cinema “minore”.
Rivivono, grazie a King, nella realtà dei nostri tempi, i vampiri, le mummie, i mostri della laguna nera, i ragni giganti, tutti i differenti modi di essere e di apparire, di mostrarsi e però di rendersi visibile solo agli occhi di chi desidera veramente vederlo, che assume ogni e qualsiasi babau per eccellenza.
Ciascun ha, si può dire, un mostro personale, e pertanto non sintetizzabile solo in un modo ed in un genere, ma amorfo ed intricato ad un tempo, non riconducibile ad una sola categoria, potendo assumere forme e nomi diversi, e pertanto l’insieme di questo caleidoscopico mostro è indicato con un più appropriato termine neutro, “It” appunto.
Ma “It” non è, non può essere solo, un romanzo horror: giacché King non è uno scrittore dell’horror in senso stretto, ma egli è invece, come ormai ampiamente assodato anche dalla critica più severa, un osservatore attento di un’epoca della vita che egli considera la migliore del corso dell’umana esperienza, quella più tenera e delicata, più magica e poetica, più sensibile e delicata, più fine, più tenera, più emotiva: l’età della primissima adolescenza. Guarda caso, è l’età anche più impressionabile dell’umana esistenza, e perciò l’età in cui la curiosità è particolarmente pungente, la fantasia fervida, la voglia di sapere, di conoscere, di vedere oltre le apparenze, sono fortissime, tenaci, in un’ottica non più infantile ma non ancora freddamente razionale, tipica dell’età adulta, e si cede perciò facilmente e docilmente al fascino dell’horror.
L’horror spaventa, ma affascina; l’horror terrorizza, ma incuriosisce; ed i maggiori consumatori dell’horror in tutte le sue forme sono proprio i ragazzini della prima adolescenza, perché non credono più alle favole, certo, e però credono ancora nelle storie “strane”, non sono più bambini, vero, ma nemmeno abbastanza grandi da limitarsi ad etichettare come illusorio ciò che non arrivano ancora cocciutamente a spiegare solo con la ragione.
Perciò King indirettamente scrive di horror, ma lo fa non per impaurire il lettore e come attività fine a sé stessa, ma utilizza l’horror come un artifizio, come un pretesto, uno specchio riflettente che appunto riflette ben altra realtà e considerazioni.
Utilizza l’horror per parlare di valori umani, di sensazioni, di particolari stati d’animo, d’affetti, di passioni, e del suo personale convincimento che questi sentimenti raggiungano l’apice della pienezza, si realizzano compiutamente solo in un ben preciso arco temporale. Un’età della vita in cui non si è più bambini ma non si è stati ancora guastati dall’indifferenza, dall’aridità, dall’egoismo che quasi inevitabilmente si accompagnano all’età adulta.
King attraverso l’horror di cui sono abituali utilizzatori i giovani, descrive il loro mondo: elogia la prima adolescenza come l’età migliore dell’uomo, quella in cui i valori dell’amicizia, completa e disinteressata, in primo luogo, e poi anche l’amore, la solidarietà, la tolleranza, giungono ad estremi mai più toccati, e spiega come questa consapevolezza, la coscienza della graduale perdita della visione pura e cristallina attraverso questo terzo occhio che va atrofizzandosi con la crescita, è l’origine della malinconia e del rimpianto con cui l’adulto ricorda l’io adolescenziale, tanto diverso e sempre migliore dell’attuale.
King allora parla spesso di ragazzini, sono di frequente ragazzini i protagonisti dei suoi libri, da Carrie White di “Carrie” a Danny Torrance di “Shining” a Charlie McGee di “Firestarter”; sono adulti ma con la purezza, l’onestà, l’innocenza e la capacità di credere e vivere in pieno certi valori, con l’entusiasmo travolgente tipica degli adolescenti, gli Stu Redman ed i Larry Underwood di “The Stand”; sono ragazzini infantili mai arrivati all’adolescenza o arrivateci male, anche certi personaggi negativi, sfortunati, vittime loro malgrado come l’Annie Wilkes di “Misery”.
Poiché King sa scrivere bene, e poiché tutti siamo stati ragazzi, ecco uno dei motivi del suo successo: siamo stati tutti ragazzi, è vero, possiamo tutti riconoscerci in quel che King magistralmente ci fa ricordare, quei giochi e quel candore, quegli amici e quelle paure, quelle emozioni e quei rituali, quel tempo fatato, diverso certo per esperienza ed esperienza per ciascuno, e però a tutti comune per identica sensibilità, capacità di vedere le cose della vita ammantate da un alone magico, con fede cieca e vivida speranza, con una tale fantasia, una tale innocenza, un tale garbo, uno stato di grazia come mai più si ripresenterà nell’esistenza.
Perciò in “It” King in fondo parla di se stesso, parla degli amici della sua personale primissima adolescenza, parla della vita e del costume dei favolosi anni cinquanta della sana provincia americana, parla d’epoche e luoghi che conosce a menadito: e poiché oltre a conoscerla bene, sa anche ben riprodurla, ecco che si realizza compiutamente l’equazione, scrivere bene di ciò che si conosce altrettanto bene, e poi è il suo talento a rendere un capolavoro la storia banale di un mostro nascosto nelle fogne di una città.
Il giovane preadolescente è a metà di un guado, non più bambino, non ancora adulto, né carne né pesce: è perciò più fragile, non ha ancora compiutamente realizzato se stesso, non ha ancora precisa identità, meno che mai ha indipendenza, in particolare la prima e più importante, quell’economica, è pertanto debole, cagionevole, dipendente dagli estri degli adulti, dagli egoismi parentali, dalla cattiveria dei bruti, finanche dai primi sconvolgimenti ormonali, insomma i giovani della prima crescita sono, per definizione, dei perdenti.
Ed il gruppo dei sette perdenti riflette l’essenza stessa del mondo magico prediletto da King.
Il capo carismatico del gruppo è William “Bill” Denbrough, ragazzo quanto più simile allo stesso King, guarda caso anche lui da adulto diventerà uno scrittore horror. Bill è un ragazzo sensibile, buono ed onesto, un amico come pochi: eppure la pochezza degli adulti non esita a ferire, seppure inconsapevolmente, l’animo nobile del giovane adolescente, che si vede respinto, rifiutato dai suoi stessi familiari in lutto per la perdita del piccolo di casa, senza pensare, chiusi nel proprio egoismo che in ogni caso nessun dolore giustifica, che quello stesso lutto ha effetti altrettanto spaventosamente sconvolgenti sull’animo del sensibile ragazzo, a maggior ragione trattandosi di un giovane non ancora formato.
Bill non ha, non può necessariamente avere, i meccanismi d’elaborazione ed accettazione di un lutto, pertanto la scomparsa del fratellino gli lacera l’anima, lo fa sentire ingiustamente in colpa, non è minimamente aiutato dai suoi cari nella triste e difficile, ma necessaria, opera di recupero e ricomposizione dell’affettività traumaticamente infranta.
Ed il disagio del giovane si rivela nell’incespicare allorché tenta, timidamente, di violare la cortina di indifferenza ed abbandono in cui i suoi stessi cari lo hanno rinchiuso.
Bill “Tartaglia” smette di balbettare solo quando dimentica, e dimentica solo quando è pervaso da amore, l’amore puro e disinteressato, spontaneo e sincero dei suoi amici: come tutti noi, non n’avrà mai più d’amici così, in tutta la sua vita.
E quanti guasti possono fare la grettezza e l’egoismo degli adulti, lo dimostrano visivamente Ben Hanscom, Ben il ciccione, deriso dai bulli della scuola e capace di partorire versi di straordinaria poetica intensità per la ragazza per la quale spasima; e Eddy Kaspbrak, con l’eterna bomboletta di spray antiasma tra le dita. Ambedue soffrono di patologie psicosomatiche, l’obesità per Ben e l’asma presunta d’Eddy, ma più che patologie sono esempi di quali guasti gli adulti possano produrre in nome di un malinteso senso dell’amore o di troppo amore: in realtà si tratta solo d’egoismo, d’egoistico e meschino senso di “possesso”, che induce la madre di Ben a rimpinzare il figlio di cibo anziché più impegnative attenzioni di tempo e dedizione, di cure semplici ma affettuose, d’educazione all’autonomia ed al rispetto per se stesso e gli altri, e quella d’Eddy a spacciare acqua canforata come miracoloso rimedio per una malattia esistente solo nella testa del ragazzo, in cui è stata inculcata a viva forza per rafforzarne la dipendenza materna.
E soffre ingiustamente Mike Hanlon, con la sensibilità tipica degli adolescenti, per le discriminazioni di cui è vittima per il colore della sua pelle; reagisce invece assai argutamente e maliziosamente alla grettezza degli adulti Richie Tozier, Richie Boccaccia dalla lingua lunga e dalle battute fulminanti, beep beep Richie, in realtà giovane assai timido e sensibile che per reazione e difesa scimmiotta il mondo degli adulti, con le sue imitazioni che mettono alla berlina il loro mondo assurdo, i loro modi di dire incongruenti, stereotipati, stantii. Quanto invece più simile agli adulti è Stan Uris, Stan l’ebreo, un piccolo ometto più che un ragazzo, non per niente è detto pure Stan L’Uomo, forse quello meno privo della magia degli adolescenti, e proprio questa mancanza sarà alla base del suo arrendersi troppo presto alla cruda evidenza della realtà: Stan non possiede compiutamente la fede cieca degli adolescenti nella magia, nel fantastico, nell’improbabile ma possibile, preferisce cedere alla freddezza del reale.
Beverly Marsh, l’unica ragazza del gruppo, è il personaggio tramite il quale si rivelano chiaramente le peggiori turpitudini del genere umano adulto: è una ragazzina fresca, vivace, in gamba, ha un mondo interiore tenero, romantico, sentimentale, una personcina pratica ed equilibrata, assai carina in ogni senso, più matura della sua età come lo sono sempre le femmine rispetto ai maschi in quell’epoca.
Questa bella anima innocente rischia di essere insozzata dalle peggiori invenzioni della razionale maturità adulta: la pedofilia, l’incesto, la violenza carnale, dalle quali scampa con l’intelligenza, la rapidità d’intuizione, l’istinto squisitamente femminile.
Beverly è il simbolo, al quale King tributa il massimo rispetto, della femminilità, con il suo candore, la sua pudicizia, la sua limpidezza ma pure con la sua saggezza, il suo coraggio, la sua forza d’animo, qualità che troppo spesso suscitano l’invidia dell’universo maschile, che ci prova quindi malignamente ad infrangerne l’incanto e la bellezza.
Una storia d’adolescenti, quindi, una storia di perdenti…che poi tanto perdenti non sono.
Perché in contrapposizione al loro mondo, c’è appunto “It”, tutto un altro universo, quello degli adulti, quello dei cosiddetti vincenti, dei maturi; un mondo assolutamente privo di tolleranza, che non esita a sbarazzarsi dei diversi, per esempio degli omosessuali, scagliandoli oltre il parapetto di un ponte.
Un mondo privo di pietas umana, se un intero paese partecipa al sanguinoso ed inutile massacro di una banda di rapinatori in fuga, sostituendosi brutalmente e selvaggiamente alla legge dell’ordine costituito.
Un mondo assolutamente privo d’amore, fratellanza, senso della comune appartenenza al genere umano, se gode del disastroso incendio di un locale nel quale sono soliti riunirsi “solo” persone di colore.
Un mondo ignobile nel quale si massacrano bambini mutilandone i corpi e si lasciano nell’abbandono sanitario e sociale i disadattati, i “cattivi” come Henry Bowers…ridendo di tutto questa con la risata sguaiata, sardonica, falsa di un clown.
Tutto questo mondo è “It”, è il condensato di quanto più negativo esiste nell’animo adulto, “It” riflette quanto d’immorale genera la maturità. Ed il male è subdolo, ma intelligente, è pervicace e perciò ritorna ciclicamente, fa parte della storia dell’uomo fin dalla sua comparsa sul pianeta terra: il male è abile, capace, affascinante, non a caso è femmina, e perciò in grado di moltiplicare sé stesso.
Allora il gruppo dei perdenti, con tutto il loro bagaglio di buoni sentimenti, è in realtà quello che prevale, a maggior ragione se conserva nella memoria quei buoni sentimenti anche nella crescita, e sa recuperarli, nel bene e nel male.
E perciò i perdenti da adulti ripetono nel male la loro adolescenza, per esempio Bev sposa un individuo meschino quanto più simile all’infido e violento padre, e Eddy ha una moglie possessiva come l’era la madre, ma anche e di più nel bene, sanno ritrovarsi, sanno riunirsi per far fronte comune alle avversità ed alle nefandezze della vita ciclicamente ripresentatisi, sanno fronteggiare ancora “It” pur nell’età adulta appunto recuperando i valori sinceri, autentici, basilari dell’esistenza, l’amicizia, la fratellanza, la bontà, magari anche l’incoscienza ed il coraggio di correre a perdifiato in bicicletta o in equilibrio assai instabile su uno skateboard, ed in definitiva tutto quanto di buono e genuino c’è nel loro animo, quello illibato della loro adolescenza.
E poiché “It”, come abbiamo detto, è femmina, lo contrasta efficacemente solo un’altra femmina, Beverly, è lei il vero leader, nemmeno tanto misconosciuto, dell’intero gruppo dei perdenti, è lei che, con intuito tutto femminile, risolve con un atto d’amore compiuto, totale, omnicomprensivo, l’eterna diatriba tra il bene ed il male che è il fulcro dell’intera storia. La cui morale è che, se davvero si voglia, tutto lo splendore dell’animo adolescenziale può davvero conservarsi anche oltre quel limite temporale, può con un personale sforzo comune sorvolare ogni barriera di razza, religione, egoismo, di spazio e di tempo siderale assumendo le sembianze non più solo esclusivamente giovanili ma finanche quelle rugose e bonarie di una vecchia tartaruga

bruno.izzo@virgilio.it

L'informazione completa