Personaggio televisivo, noto per le sue incursioni nel mondo dello street food e della cucina popolare con Unti e Bisunti e I Re della Griglia, entrambi su D Max, Gabriele Rubini, vero nome di Chef Rubio, ex rugbista oggi cuoco vocato alla cucina democratica, è l’outsider di Culinaria 2016.
A cura di Antonella De Santis
Fuori dallo star system gastronomico (ma nel centro – se pur in modo non convenzionale – di quello televisivo e dei social network), è personaggio sanguigno e poco incline a cedere alle regole del gioco di un mondo, quello gastronomico, che guadagna sempre più copertine e folle di fanatici. “Un mondo che mi fa schifo e con cui non c’entro un cazzo” dice, senza troppi filtri. La cucina, e la sua notorietà, sono lo strumento per portare avanti il suo impegno nel sociale. E anche in questo caso non fa eccezione dato che la sua partecipazione è legata a un’iniziativa di solidarietà e sensibilizzazione sul valore dell’alimentazione nella malattia.
Come mai a Culinaria?
Non lo so neanche io come ci sono finito. Lo faccio semplicemente per Leo, è un motivo personale. C’è un problema legato all’alimentazione di chi è sottoposto alla chemioterapia.
Sarai presente insieme a un medico. Avete sviluppato insieme la ricetta?
No. Ma non è importante la ricetta che porto.
Non credi che un progetto sull’alimentazione dei malati si debba fare insieme a un medico?
Una volta il cuoco era uno stregone e come tale anche un medico, era dentro la società, conosceva da vicino le situazioni della gente. Non si limitava a dare ricette. La cucina può avere questo ruolo.
Molti altri chef stanno lavorando proprio su questo tema, in sinergia con strutture ospedaliere per creare dei menu adatti per determinare patologie o semplicemente più validi da un punto di vista gustativo e nutrizionale. Che ne pensi?
Penso che le idee poi rimangono ferme lì, perché se ne parla ma poi non c’è attenzione alimentare per i malati. Per loro serve una cucina bilanciata che possa esaltare i sensi, equilibrata nei sapori e ricca di profumi. Invece alla fine i soldi del Ministero non ci stanno e non se ne fa niente e il cibo che danno ai malati è una schifezza. Ci sono i singoli individui, ma le cose si fermano lì, non c’è un progetto che accompagni il malato a un decorso gioioso.
Non sei un cuoco improvvisato: esci dall’Alma e poi hai fatto molte esperienze, in Italia e all’estero. Su cosa stai lavorando ora?
Dell’Alma non voglio sentire neanche parlare perché ormai Gualtiero Marchesi ha detto tante di quelle cazzate che preferisco ignorarlo. E di tutte le storie dei cuochi star e delle ricerche che fanno non mi frega niente. Non c’entro niente con quelle cose.
Con cosa c’entri allora?
Nella mia storia sono costantemente alla ricerca di una linea verde, di essere vicino alla gente e a chi è più debole. Di tutte le stronzate e dei lustrini non mi frega un cazzo. Si parla delle decorazioni ma qui mancano le fondamenta: le persone mangiano male, non sanno riconoscere una carne buona da una piena di ormoni. Si riempiono di schifezze e ancora stanno dietro alle foto con lo chef. Mi interessa democratizzare la cucina. E basta.
In che modo lo fai?
Con i programmi televisivi racconto la cucina popolare, do spazio alle persone che incontro e al territorio: non sono io il protagonista. Parlo di cucina in modo spicciolo per essere vicino a tutti. Poi faccio un sacco di cose: lezioni di cucina nelle carceri, ricette nella lingua dei segni (per ora una, ma in programma ce ne sono altre quattro). Non sto qui a dirti tutto. C’è un sacco di roba su cui lavorare: lotta agli sprechi, educazione alimentare, integrazione, sostegno ai più deboli e tanta altro ancora.
Ci tieni molto al contatto con le persone. Come riesci a mantenerlo?
Partecipo a tanti eventi, parlo con la gente, scrivo sui social network e cerco sempre di portare avanti alcuni discorsi. Ma vorrei pure che la gente che mi viene a sentire mi mettesse in difficoltà ogni tanto, mi chiedesse cose che non so e che posso andare a studiare. Invece in genere si aspettano la battuta e il personaggio televisivo. E stanno bene così.
Per quanto tu sia molto noto riesci a raggiungere un numero limitato di persone. Non credi si possa operare nel sociale anche creando qualcosa di più strutturato? Bastano le comparsate per cambiare le cose?
Quello che faccio non basta?
Torniamo alla cucina. Non pensi mai di aprire un ristorante tuo?
No. Mi annoia la ripetitività. Se avessi un ristorante mio morirei il giorno dopo. Preferisco le cose one shot, collaborare con colleghi su alcuni progetti, fare eventi ad hoc. Voglio sempre essere entusiasta delle persone e delle cose che faccio.
Frequenti i ristoranti?
Purtroppo sì: frequento un sacco di ristoranti perché sono sempre in giro, quindi mangio fuori casa. Sono stracontento, ovvio, ma non ho mai la cucina di casa.
C’è stata un’esperienza che ricordi con più interesse o che ti ha spinto ad approfondire il lavoro su un prodotto o una cottura?
Mi ricordo un carrello dei bolliti buonissimo in un ristorante di Verona. Ricerche su qualche cosa in particolare? No.
C’è una cucina che ti interessa?
Non mi interessa parlare di cucina. La cucina è solo un tramite per parlare di altro.
Su cosa stai lavorando ora?
Sono interessato al mondo dei cocktail e alle possibilità degli abbinamenti. Mi confronto spesso con Oscar Quagliarini, e sto portando avanti un progetto con Edgardo Fontana. Poi sto lavorando con un naso, un creatore di profumo. Ma di più non dico.
Culinaria X | Roma | Capitol Club | via Giuseppe Sacconi, 39 | il 20 febbraio, dalle 13 alle 2; il 21 dalle 12 all’1 | www.culinaria.it
a cura di Antonella De Santis
foto in apertura di CaRbonelli&Segant