La musica ispirata a Salieri, un ballerino dell’Arena di Verona. E lei: Silke Pan, artista circense dalla storia davvero speciale. 49 anni, nata in Germania ma da tempo residente in Svizzera, Silke si esibirà il 25 settembre a Legnago (Verona), in occasione dell’International Salieri Circus Award diretto da Antonio Giarola.
di Marina Cappa
In scena, fra musica ed equilibrismo ripercorrerà l’episodio che quindici anni fa le cambiò la vita.
Che cosa successe?
«Ero a Fiabilandia, e preparavo un numero aereo con mio marito (Didier Dvorak, ndr). Volteggiavo, lui era attaccato al trapezio, le nostre mani sono scivolate. Non c’era una rete, la persona sotto che doveva prendermi non è riuscita a farlo. Sono caduta. Al risveglio ero paraplegica».
Colpa di suo marito, che non l’ha afferrata?
«Non l’ha fatto apposta, per lui parlarne è ancora un dolore troppo forte. Io sapevo che c’è un certo rischio in questo lavoro, mai però avrei immaginato questo».
Come ha reagito?
«All’inizio è stato psicologicamente molto difficile. Siamo tornati a Rimini con uno spettacolo di palloncini e magia. Ma io mi sentivo imprigionata nel mio corpo, mi vergognavo, avrei voluto nascondermi. Così ho deciso che con lo spettacolo avevo finito».
Non era però la prima volta che si trovava in una situazione estrema…
«Da bambina avevo sofferto di anoressia: smettere di mangiare mi aveva permesso di rompere il contatto con il mondo esteriore e di sentirmi meglio. In ospedale dicevano che stavo per morire, io ero come in un’altra dimensione, stavo bene e non volevo tornare nel mio corpo. Ma a un certo punto è stato come se dentro di me mi si ponesse una scelta: o lasciarmi andare o tornare nel mio corpo».
Ha deciso di non mollare.
«Era una responsabilità che mi dovevo prendere. Da allora mi è rimasta la consapevolezza che in questa vita dobbiamo esserci al 100%, fare il meglio possibile. Dopo l’incidente sapevo che avevo perduto una gran parte del mio corpo, l’attrezzo con cui mi esprimevo, ma doveva esserci una ragione per cui non ero morta. Dovevo scoprirla».
L’ha scoperta?
«Sì, le associazioni spesso mi chiamano per dare una testimonianza, far vedere a chi avuto incidenti o malattie il lato positivo».
La testimonianza l’ha data anche diventando vice campionessa mondiale di para triathlon, scalando in handbike decine di vette, attraversando a nuoto 26 laghi svizzeri.
«Ho sempre voluto scoprire i miei limiti. In ospedale mi avevano detto: adesso sei paraplegica, questo lo devi dimenticare, questo non lo potrai più fare Certo, i primi due anni cadevo sempre perché non sapevo come maneggiare la carrozzina. Poi, mio marito mi ha proposto queste sfide, e io ho accettato, un passo dopo l’altro».
Quanto a passi, ne ha fatto uno importante grazie al Politecnico di Losanna…
«Gli ingegneri mi hanno chiesto di aiutarli a sviluppare un esoscheletro per partecipare al cyberathlon, in cui gli atleti camminano, salgono le scale, fanno movimenti. Ho accettato e tre mesi dopo gareggiavo».
L’esoscheletro si usa solo in gara?
«Lo scopo è svilupparlo per la vita quotidiana, al posto di una sedia a rotelle. Il mio sogno era tornare ballare e sono riuscita a fare una coreografia, con due altri ballerini. Per me, la cosa peggiore non era non camminare più, ma non poter più fare il trapezio, le verticali, ballare: era la mia vita, il mio modo di esprimermi, sentirmi libera».
Essere donna l’ha aiutata?
«Forse sì, perché una donna è abituata a sopportare il dolore, il nostro corpo lo affronta ogni mese, conosciamo le sofferenze del parto…».
Lei ha figli?
«No, prima non era mai il momento giusto, c’era la carriera. Dopo, con i problemi che avevo, non volevo imporli a un figlio».
Che consiglio darebbe a chi ci governa, per aiutare i disabili?
«Per un disabile muoversi è più importante che per un’altra persona, perché il movimento è una fisioterapia e anche perché aiuta a essere positivi: decidere di uscire anziché chiudersi in casa è già un passo avanti verso una vita migliore. Quando siamo fuori, ci confrontiamo con altri e questo ci permette di relativizzare: tutti hanno i loro problemi, anche se non si vedono come il mio».
Il problema sono le barriere architettoniche.
«Ci sono tanti posti non adatti alla disabilità. Ma dobbiamo anche allenarci per adattarci alla situazione. Io vivo in un caravan: la carrozzina non entra, io la lascio fuori e con le braccia mi trasferisco dentro. Bisogna mettersi sempre alla prova. A me ha aiutato ciò che ho vissuto da bambina, non voglio più che una depressione possa rubarmi la vita, mi esercito ad avere sempre il sorriso dentro. Non è facile, ho dolori cronici, ci sono notti che per il male non dormo. Ma questo non mi farà finire nella valle oscura. Lo so, ci vuole più forza per arrampicarsi in cima che per lasciarsi scivolare giù. Noi però possiamo farcela».