Lo scrittore ucraino che vive negli Usa, Ilya Kaminsky: “La mia Odessa ferita da chi cancella la Storia”

Nato nella città che si affaccia sul Mar Nero, oggi sotto attacco, la scorsa estate ha pubblicato anche in Italia il suo romanzo "Repubblica sorda"

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di Anna Lombardi

«Da Odessa mio cugino mi scrive: “È esplosa una bomba, i vetri delle finestre tremano ancora”. Gli rispondo impacciato: “Stai lontano dalle finestre”.

Cos’altro puoi dire a chi ami, quando sei al sicuro dall’altra parte del mondo?

Guardo le news, sono in contatto con parenti e amici a Kiev, Kharkov, Lviv. Alcuni sono al riparo nelle stazioni della metro. Altri hanno solo messo lo scotch alle finestre e aspettano. Non riesco a mettermi in contatto con uno zio e sono preoccupato. Sì, o paura per le persone che amo. E per il mio paese ferito. Cosa destina il futuro agli ucraini? Penso a Odessa, dove sono nato e considero casa. Riuscirò a tornarci? Cosa troverò?». Ilya Kaminsky, 44 anni, poeta e scrittore, è l’autore di “Repubblica Sorda” (pubblicata da La Nave di Teseo). Storia di un paese dilaniato da disordini politici, dove per sedare una protesta i soldati uccidono Petya, ragazzo non udente. Lo sparo assorda tutti gli abitanti: da allora capaci di comunicare solo col linguaggio dei segni… Kaminsky, di famiglia ebraica («era scritto sui nostri documenti e nella Russia antisemita significava insulti continui»), nato in quella che all’epoca era ancora Unione Sovietica, è sordo dall’età di 4 anni a causa di un infezione. I suoi primi apparecchi acustici, racconta, li ha avuti solo quando è approdato in America, nel 1993: «Quel giorno ho riscoperto il mondo. E non era più il mio».

Anche ora gli osservatori parlano di un mondo cambiato: in una notte, con l’ingresso dei carrarmati russi in Ucraina… 

«Del mondo inteso in senso lato – quello della politica, dell’economia –  non so. Certo, gli eventi di questi giorni stanno però sconquassando il mio mondo privato, fatto di affetti, memoria, così come quello di molti altri. Ferite che non si rimarginano facilmente. Lo so bene, perché anche io sono un rifugiato la cui esistenza è stata tranciata a metà dalla Storia. Parte di me è ancora a Odessa, vive nella una città fantasma che pure ho abbandonato molti anni fa. Questa sorte toccherà ora ad altri. E quando il mondo ritroverà equilibrio, tutti avremo perso qualcosa per sempre».

Vladimir Putin sostiene che l’Ucraina non esiste… 

«Sul campo, oltre agli eserciti, si scontrano le visioni di due figure tragiche, ciascuno a suo modo. Putin, autocrate esperto, è stato popolare a lungo grazie alla politica intransigente che ha riportato ordine dopo il caos degli anni 90. Ormai abituato al potere illimitato ha però perso il controllo sulla realtà. E per tenersi saldo al comando inventa un passato che non c’è. Poi c’è Zelensky: ex attore, politico inesperto, sta diventando un leader leggendario. È coraggioso, onesto, crede nell’indipendenza del suo Paese e nella capacità di evolvere. Molto più di ciò che la maggior parte dei politici offre»

Da piccolo s’immaginava cosa sarebbe successo se l’intera Unione Sovietica fosse stata sorda come lei, incapace di udire e dunque eseguire gli ordini…

«Quelle immaginazioni infantili sono rilevanti ancora oggi. Sarebbe fantastico se i lunghi discorsi di Putin finissero nel vuoto di una nazione che non lo ascolta più, che rifiuta l’odio delle sue affermazioni. Ma ci sono anche altri tipi di silenzio. Quello imposto dalla menzogna, che tenta di mettere a tacere la verità riscrivendo la Storia: dando dei nazisti alle vittime. E poi c’è il silenzio della complicità: di chi resta a guardare mentre una grande potenza prova con la forza a spegnere la voce del suo vicino, piccolo, inoffensivo: libero. Non possiamo tollerarlo. Bisogna fermare Putin. Mantenendo però la nostra umanità».

Come si fa? 

«Oggi su Odessa, città un tempo sempre in festa, cadono le bombe. Ma ricordo, qualche anno fa, cosa accadde quando un caffè da me molto amato fu fatto esplodere da un attacco terroristico poco prima che c’incontrassi un amico. Ero spaventato: ma quell’amico, il poeta ucraino Boris Khersonsky, no. Volle che andassi lì ugualmente. Chiamò altri. Ci radunò davanti alle macerie e si mise a leggere le sue poesie ad alta voce. Qualcuno portò cibo e bevande. Restammo umani- La lezione è che soprattutto nei giorni più terribili ci sono momenti teneri. E abbiamo il dovere di valorizzarli. Fa parte della resistenza anche quello. È dalla vita non dalla morte che si riparte».

In queste ore siamo sommersi da immagini di violenza e guerra…. 

«Non possiamo limitarci a quello. E disumanizzante. Generico. Si dimentica un attimo dopo. Solo raccontare, per dire, cosa fanno i bambini in queste ore nascosti nei rifugi, che si fa breccia. A cosa giocano? Cosa disegnano? Hanno paura? Abbiamo il dovere di dare lirismo al vortice del dolore. Me lo ha insegnato mio padre: bambino ebreo nell’Odessa occupata dai nazisti, ha sofferto, certo. Ma ha anche imparato a ballare. Fu Natalia, la donna russa che lo nascondeva ad insegnarglielo: era irrequieto e per tenerlo occupato gli insegnò il tango. Per 3 anni ballarono ogni giorno in una stanza dove le tende erano sempre tirate. Solo permettendo alla vita di prendere il sopravvento sulla guerra manterremo la nostra umanità».

Lei è stato definito “uno dei 10 artisti in grado di cambiare il mondo”. In un momento così drammatico gli intellettuali cosa possono fare? 

«Alzare la voce: creando. L’arte è resistenza al compiacimento, si oppone al torpore. È lì, a svegliarci quando diventiamo insensibili, ficcandoci negli occhi e nella testa le metafore che ci aiutano a comprendere la realtà. Aiutandoci a cambiarla».

 

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