Kamala Harris, adesso, ha anche un nome nella lingua dei segni americana. Glielo hanno assegnato cinque donne, Ebony Gooden, Kavita Pipalia, Smita Kothari, Candace Jones e Arlene Ngalle-Paryani, che fanno parte della comunità delle donne sorde nere e indiane.
di Monica Coviello
Ci hanno lavorato poco dopo le elezioni presidenziali del 2020, partendo dal principio che la scelta del nome in lingua dei segni per la vicepresidente degli Stati Uniti dovesse essere il risultato di un processo inclusivo e democratico. Attraverso i social media, hanno invitato altre donne sorde nere e indiane a impegnarsi con loro e hanno creato un sistema per consentire alle persone di inviare suggerimenti. Alla fine, hanno messo ai voti le proposte.
Ha vinto l’idea che era stata lanciata da Arlene Ngalle-Paryani ha vinto: un gesto della mano che prevede la rotazione del polso verso l’esterno mentre il pollice, l’indice e il medio si aprono. Questo segno trae ispirazione, tra l’altro, da quello che si usa per indicare il «fiore di loto» – la traduzione diretta della parola «Kamala» in sanscrito – e incorpora il numero 3 per sottolineare i tre primati di Harris: è la prima donna, la prima donna nera e la prima donna di origini indiane a venire eletta vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Inoltre, Kamala Harris, come ha precisato Kavita Pipalia, in passato ha sostenuto pubblicamente i diritti dei non udenti.
Per Ebony Gooden, Kavita Pipalia, Smita Kothari, Candace Jones e Arlene Ngalle-Paryani, era fondamentale che le donne sorde nere e indiane facessero parte del processo decisionale. «I nomi dati ai leader politici sono solitamente creati da uomini bianchi, ma per decidere quello di Kamala Harris volevamo non solo che fossero rappresentate le donne, ma anche le diversità: le donne nere e le donne indiane», ha spiegato Smita Kothari. Per lei, i social media possono diventare uno strumento potente per assicurarsi che anche le prospettive delle minoranze siano tenute in considerazione.