“Battere le mani mette ansia”. Stop degli studenti di Oxford

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Stop agli applausi nella culla mondiale del sapere.

Non incoraggiano, anzi possono scatenare ansia. Perciò gli studenti dell’Università di Oxford smetteranno di battere le mani durante le conferenze e i dibattiti che organizzano nell’ateneo, finito anche nel 2019, per il quarto anno consecutivo, in cima alla lista delle migliori università mondiali.

Per mostrare approvazione e consenso – è la decisione presa con una mozione votata dalla Oxford University Student Union – i ragazzi agiteranno entrambe le mani, come nella lingua dei segni per i sordomuti (gli inglesi le chiamano «jazz hands»). Palmo aperto come per fare il cinque e mani che ruotano in senso circolare, con le braccia a fare da perno.

«È un modo per andare incontro non solo a chi ha problemi di salute, coloro che soffrono di sordità oppure autismo – ha spiegato Roisin McCallion, la studentessa che ha promosso la mozione -. Vogliamo che i nostri eventi siano più accessibili e inclusivi per tutti, comprese le persone che soffrono di ansia». Un principio che era già stato difeso dagli studenti dell’Università di Manchester, i primi a inaugurare il cambio di rotta l’anno scorso. «Battere le mani può scoraggiare chi vuole partecipare a eventi democratici» aveva spiegato Sara Khan, precisando che nell’ateneo del nord dell’Inghilterra sarebbero spariti anche gli urletti di sostegno e il più generico tifo tipico degli eventi di gruppo. «Ho notato che molto spesso, anche durante i dibattiti parlamentari, tutti questi rumori alimentano un’atmosfera non rispettosa».

Eppure, già allora, si erano levate le prime voci polemiche. Quella dell’arcinoto Piers Morgan, giornalista e star televisiva inglese, che lo scorso settembre, disse chiaro e lapidario, come nel suo stile: «La Gran Bretagna sta perdendo la testa». La notizia era arrivata anche all’orecchio di Jeb Bush, fratello dell’ex presidente Usa George W. Bush, anche lui critico. «Not cool, University of Manchester. Not cool», aveva commentato la scelta, a dir poco condivisibile.

Le polemiche non si sono fermate neanche questa volta. E c’è chi punta il dito contro un’intera generazione. «Ragazzi ipersensibili», dicono. «Coltivare ed esporre le loro fragilità è diventato parte integrante del tipo di identità che celebrano», ha spiegato Frank Furedi, docente di sociologia all’Università del Kent.

La pensa allo stesso modo la psicopedagogista e psicoterapeuta Maria Rita Parsi. «Ma allora il pubblico dovrebbe presentare un attestato medico ogni volta che partecipa a una conferenza. Oppure dovrebbe firmare un consenso informato e accettare di voler incorrere nel rischio di un applauso. Sarebbe l’unico modo per tutelare le persone che soffrono di problemi di udito o autismo – spiega la Parsi – Ma lo stop totale mi sembra eccessivo. Chi organizza e partecipa a una conferenza, deve sapere che corre il rischio che la platea si lanci in un applauso spontaneo, la naturale conseguenza di un’emozione. L’applauso gratifica l’oratore, ma anche chi lo ascolta ed è un’emozione reciproca, non di una sola persona. Mi piacerebbe anche capire su quali basi scientifiche si poggia questa posizione». Quanto alla generazione di ragazzi ipersensibili. «È vero, i giovani di oggi lo sono molto di più. Anche per quello che viene loro proposto. Sono esposti a un bombardamento di videogiochi, ai pericoli gravissimi della società virtuale. E gli adulti autorevoli, genitori ed educatori, li difendono poco da questi rischi. Compreso l’inquinamento visivo e uditivo delle nostre città, altro che applausi», conclude Parsi.

Ma la domanda che mette a nudo la questione, alla fine, è quella che gira tra i nickname e i loro messaggi feroci e ironici sul web. «Va bene sventolare le mani per andare incontro a chi soffre di autismo, problemi sensoriali e di udito. Ma allora, come la mettiamo con chi è cieco?».

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