Afghanistan, Kabul: un altro attentato tra la gente nel Paese dove la speranza è affidata alle donne

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ROMA – La sede del ministero dell’Informazione afghano, a Kabul, è stato sotto attacco per diverse ore, dalle 11,40 di stamattina (quando in Europa erano da poco passate le 10) fino a poco fa. Ancora una volta, dunque, la popolazione civile di questo Paese dove “manca tutto, tranne la guerra” (che dura da 30 anni, tra quella dichiarata e quella cosiddetta a “bassa intensità”) è coinvolta in situazioni di estrema tensione e pericolo. I tre attentatori armati sono stati uccisi.

Kabul, foto di Ugo Panella

Lo ha reso noto il ministero dell’Interno attraverso un twitter. “L’operazione si è conclusa – si legge nel messaggio – tutti i terroristi sono stati uccisi e più di 2.000 funzionari civili sono stati messi al sicuro”. I talebani hanno fatto sapere, da uno dei suoi portavoce più attendibili, che loro in questa vicenda non c’entrano nulla. Dunque, una “non rivendicazione” alla quale si tende a credere, soprattutto ora che sono in corso a Doha i negoziati di pace, che vede impegnata una delegazione talebana composta da una trentina di persone, comprese alcune donne. Dunque, l’ipotesi più credibile – tenuto conto anche dello stile suicida dei tre attentatori – è che si sia trattato di un commando di terroristi del cosiddetto stato islamico (IS).

Il lavoro delle organizzazioni umanitarie. A Kabul lavorano poche organizzazioni umanitarie. Fatta eccezione del grande centro sanitario di Emergency, altri generi di aiuti vengono svolti da un numero limitato di Ong e Fondazioni. Tra queste, c’è Pangea Onlus che a Kabul, proprio in questi giorni, ha inviato alcuni dirigenti, assieme al suo presidente, Luca Lopresti, che per telefono ci ha raccontato quanto è stava accadendo, descrivendo anche un po’ il clima che si respira in questo momento. “Siamo stati in apprensione anche perché nella sede del ministero c’era una persona della famiglia di Aladino, il nostro uomo più prezioso, qui a Kabul. Per fortuna tutte le persone che erano state prese in ostaggio sono salve, dopo essere state liberate con un intervento tempestivo e preciso dei servizi di sicurezza. Tutta la zona del centro della città – ha aggiunto Lopresti –  lungo l’Andarabi Road, nei pressi dell’Hotel Serena, è stata bloccata per ore. Noi, qui lavoriamo da sempre, con diversi progetti dedicati soprattutto alle donne, che sono il punto cardine dei nostri interventi. Da anni garantiamo piccoli crediti a queste persone affinché abbiamo le risorse per avviare piccole attività, che cambia loro la vita: non solo perché aiutano la famiglia, ma soprattutto perché modificano radicalmente il loro rapporto all’interno della relazione matrimoniale”.

La scuola per sordomuti. In un quartiere periferico di Kabul, Arzan Quemat, c’è poi una scuola con circa 500 alunni, da un anno ai diciotto anni, sia femmine che maschi, tutti sordi o sordomuti. “Una scuola molto silenziosa – dice Luca Lopresti – ma piena di vita, popolata da persone che provengono da diversi quartieri di Kabul. La scuola, per loro, è un luogo speciale per diverse ragioni: è dove imparano a leggere e scrivere, ma è forse soprattutto il luogo che, semmai non ci fosse, farebbe di questi ragazzini degli emarginati a vita, destinati alla solitudine e ad una violenza familiare e sociale“.

Il progetto Jamila. E’ un po’ il “pezzo forte” del lavoro di Pangea, in Afghanistan dal 2003. Si sviluppa nell’area urbana di Kabul, in diversi quartieri della periferia, dove l’organizzazione ha attivato un circuito di microcredito, integrato con altri servizi di tipo educativo e sociale. Ci si rivolge a donne povere, per la maggior parte analfabete e con problemi familiari (vedove, orfane con handicap, con famiglie numerose, con mariti malati, o più spesso violenti) ma fortemente motivate nel voler dare una svolta alla loro esistenza e a quella della loro famiglia, attraverso un’attività di micro-imprenditoria familiare o individuale. A loro – che sono ormai oltre 6.000 – viene data l’opportunità di accedere a prestiti – tutti restituiti con estrema puntualità nel tempo – che possono essere da un minimo di 120 a un massimo di 500 Euro. Con questi soldi avviano un’attività che genera reddito ma, nello stesso tempo, seguono anche un programma di alfabetizzazione, aritmetica, diritti umani, igiene e salute riproduttiva.

L’idea-guida del Progetto Jamila. E’ stato sviluppato un programma pensando a come poter inserirsi nella visione e la concezione discriminante e retrograda sul ruolo della donna nella società afghana, e ribaltarla facendo delle donne un perno dello sviluppo e del benessere all’interno della propria famiglia e quindi della comunità in cui vivono a partire dall’economia per poi arrivare ai diritti e al benessere dell’individuo. In questo modo si lavora per migliorare la loro condizione, consapevoli dei limiti e delle contraddizioni imposte dalle tradizioni culturali, ma sicuri però che interrompere il processo di emancipazione vorrebbe dire condannare queste donne e l’intera società afghana a ristagnare nella guerra.

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