L’origine del coronavirus è ancora un mistero

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A cinque anni dall’inizio della pandemia si discute ancora sui primi tempi della sua diffusione, tra pipistrelli, caverne e ipotesi su fughe di laboratorio

«Lo dico chiaramente: per quanto riguarda l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), tutte le ipotesi rimangono aperte». Era passato un anno dall’inizio della pandemia da coronavirus e con queste parole il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva chiarito nel 2021 che non c’erano ancora elementi certi per stabilire l’origine del virus che in un anno aveva causato la morte di almeno 3 milioni di persone. Di anni ora ne sono passati cinque e le morti sono diventate oltre 7 milioni, senza contare i milioni di decessi non registrati, ma sulle origini del coronavirus le ipotesi continuano a rimanere aperte e non è detto che si riesca a risolvere il mistero.

Ormai da anni virologi, epidemiologi, istituzioni sanitarie, governi e i loro servizi segreti discutono e talvolta si scontrano sul modo in cui il SARS-CoV-2, il virus che ha condizionato più di qualsiasi altra cosa la nostra storia recente, si sia formato e abbia poi contagiato i primi esseri umani. Le attenzioni si sono concentrate su tre principali teorie: un’origine naturale, un errore di laboratorio o un imprevisto nella creazione di una nuova potente arma biologica. Soprattutto le teorie che escludono l’origine naturale hanno poi portato a loro volta alla genesi di ulteriori ipotesi, alcune più creative di altre e basate spesso su supposizioni e coincidenze, più che su dati e indizi scientifici misurabili e analizzabili.

L’ipotesi dell’origine naturale è indicata spesso come la più probabile, sulla base di come si diffondono solitamente nuovi virus tra gli esseri umani. Fare una distinzione è comunque complicato: i virus evolvono e si differenziano per conto proprio, attraverso mutazioni dovute agli errori casuali di trascrizione del loro materiale genetico da parte delle cellule che hanno colonizzato. Il SARS-CoV-2 non fa differenza e per questo dall’inizio della pandemia gruppi di ricerca da tutto il mondo lavorano per ricostruire i vari passaggi della sua storia

Dal punto di vista genetico, il coronavirus che ha confinato per mesi in casa miliardi di persone ha diverse cose in comune con i virus che solitamente infettano i pipistrelli. A differenza di questi ultimi, il SARS-CoV-2 si fece però notare quasi subito nel 2020 per due caratteristiche: la capacità di legarsi facilmente alle cellule e la facilità con cui riesce a entrare al loro interno. Entrambe contribuivano a renderlo un virus molto contagioso e pericoloso, ma anche molto diverso da altri coronavirus come quello che causa la SARS, la malattia respiratoria che causò un’epidemia tra il 2002 e il 2004 in particolare in Asia.

Furono proprio quelle caratteristiche non osservate in virus simili a far sì che alcuni virologi iniziassero a chiedersi se il SARS-CoV-2 potesse essere il frutto di una manipolazione genetica, attuata intenzionalmente per renderlo più contagioso. Alcuni dei più importanti esperti del settore ne discussero in una riunione in remoto all’inizio di febbraio del 2020. Tra i partecipanti c’era anche Anthony Fauci, all’epoca il direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) e uno degli immunologi più famosi e rispettati al mondo.

Nella riunione furono condivise valutazioni importanti sulle caratteristiche naturali dei coronavirus. Successivi approfondimenti sulla capacità di altri virus di legarsi facilmente alle cellule (per quanto non strettamente imparentati con SARS-CoV-2), portò l’ipotesi di un virus ingegnerizzato a essere vista come improbabile. Niente di insolito: nella ricerca scientifica si formulano e scartano ipotesi di continuo, ma i dubbi iniziali avrebbero condizionato fortemente il dibattito intorno alle origini del coronavirus, soprattutto negli Stati Uniti, finendo al centro del confronto politico. Nel corso delle audizioni al Congresso organizzate per provare a ricostruire le cause della pandemia anni dopo, allo stesso Fauci fu rinfacciata la partecipazione a quella riunione, in cui aveva ridimensionato le ipotesi sulla fuga da un laboratorio.

Anthony Fauci durante un’audizione al Congresso degli Stati Uniti sulla pandemia da coronavirus, 3 giugno 2024 (AP Photo/Mariam Zuhaib)

Nei giorni dopo quell’incontro, si scoprì che forse alcuni parenti alla lontana del SARS-CoV-2 erano originari di una caverna nella provincia cinese dello Yunnan, a quasi duemila chilometri da Wuhan, la città della Cina dove erano stati rilevati i primi contagi alla fine del 2019. Non era stato trovato un virus vero e proprio, ma una sequenza del suo materiale genetico rinvenuto nelle feci di un pipistrello nel 2013, in seguito ad alcune analisi rese necessarie dalla morte di tre minatori per un’infezione respiratoria dalle cause misteriose l’anno precedente.

Le analisi nel 2013 erano state condotte da un gruppo di ricerca dell’Istituto di virologia di Wuhan, specializzato proprio nello studio dei coronavirus, e questo ha inevitabilmente contribuito ad alimentare le ipotesi sull’origine in laboratorio del SARS-CoV-2. Si è detto che i ricercatori avessero portato il virus a Wuhan e che poi, anni dopo, sarebbe finito per errore fuori dal laboratorio, forse in seguito all’infezione accidentale di una delle persone che lavoravano al suo interno. Ciò che era stato trovato nelle feci di pipistrello non era però un virus completo, ma una sequenza e sarebbe stato molto difficile produrre da questo un coronavirus completo in laboratorio. Le tre morti dei minatori non furono inoltre ricondotte con certezza a un possibile lontano parente di SARS-CoV-2: forse ebbero una causa virale diversa.

La spiegazione più condivisa è che il coronavirus a Wuhan arrivò in qualche altro modo, probabilmente tramite una specie intermedia tra i pipistrelli e gli esseri umani. I sospetti si sono concentrati a lungo sui pangolini, ma studi più recenti hanno ipotizzato un ruolo dei cani procione, animali simili a volpi tipici dell’Asia orientale. Il virus sarebbe passato dai pipistrelli ai cani procione, mutando ulteriormente e acquisendo la capacità di interagire meglio con alcune proteine sulle membrane delle cellule. Per saperlo con certezza, sarebbero però necessari dati risalenti alla fine del 2019 e ai primi giorni del 2020 che le autorità cinesi non diffondono, o che forse non furono raccolti.

Ci sono elementi per ritenere che nel mercato di Wuhan dove furono rilevati i primi casi fossero in vendita animali selvatici vivi, compresi porcospini, zibetti e cani procione. Raccogliendo campioni di sangue, muco e feci si sarebbero potute cercare tracce del materiale genetico di un virus, ed eventualmente confrontarle con quelle dei primi casi di infezione tra gli esseri umani. In questo modo si sarebbe potuto capire se al mercato i contagi fossero avvenuto da animali a umani e non viceversa, ottenendo indizi per ricostruire il punto di partenza del contagio

Alla fine del 2019 il mercato fu però chiuso dalle autorità cinesi, senza la possibilità di confermare la presenza di quegli animali e di raccogliere dei campioni. La rapidità della chiusura fu probabilmente dovuta alla necessità di nascondere la vendita degli animali selvatici vivi, formalmente vietata proprio per ridurre il rischio della trasmissione di malattie agli esseri umani.

Il mercato di Huanan di Wuhan, in Cina, fu chiuso alcuni giorni dopo la scoperta dei primi casi di contagio (AP Photo/Dake Kang, File)

Ancora oggi, a distanza di cinque anni, l’OMS chiede al governo della Cina di condividere informazioni sull’inizio della pandemia che potrebbero rivelarsi cruciali, non solo per ricostruire come andarono le cose, ma anche per prepararsi meglio in vista delle future emergenze sanitarie internazionali. La scarsa trasparenza ha contribuito molto alla costruzione dell’ipotesi dell’origine nel centro di ricerca di Wuhan del coronavirus. Alcune dichiarazioni dei responsabili dell’intelligence statunitense hanno contribuito ad alimentare quelle ipotesi.

Nel 2021 un rapporto dell’Ufficio del direttore dell’Intelligence nazionale degli Stati Uniti (ODNI) ha segnalato come ci fosse una divisione tra le agenzie riguardo alle ipotesi sull’origine del coronavirus. Per lungo tempo l’FBI ha detto di ritenere «con moderata fiducia» che SARS-CoV-2 sia stato il frutto di attività di laboratorio, mentre la CIA aveva mantenuto una posizione più cauta, allineandosi a quella dell’FBI solo nelle ultime settimane. Le indagini del Congresso hanno portato a varie dichiarazioni, orientate verso una fuga accidentale da un centro di ricerca.

Le audizioni del Congresso e il lavoro dell’intelligence hanno comunque ricevuto diverse critiche, segnalando come le indagini siano state condizionate dalla mancanza di dati grezzi su cui fare valutazioni più accurate. Conversazioni e carteggi tra gli esperti, soprattutto all’inizio della pandemia quando la situazione era molto incerta, sono state portate come prove a favore dell’ipotesi del laboratorio, anche se in molti casi erano semplici confronti su tutte le opzioni possibili per ricostruire le prime fasi dell’epidemia.

Uno degli elementi centrali usati da una parte consistente dei sostenitori dell’ipotesi sulla fuga accidentale dal centro di ricerca di Wuhan divenne di pubblico dominio nel 2021, quando un’inchiesta svelò l’esistenza di “Project Defuse”: una proposta di finanziamento che gruppi di ricerca statunitensi e di Wuhan avevano presentato nel 2018 all’Agenzia per i progetti di ricerca avanzata di difesa degli Stati Uniti (DARPA). Il progetto prevedeva di partire da alcune versioni dei virus che avevano causato la SARS e di studiare quali modifiche li potessero rendere più abili nell’intrufolarsi nelle cellule.

Questo “guadagno di funzione”, come viene chiamato in virologia, avrebbe permesso di studiare meglio i coronavirus e di comprendere il modo in cui interagiscono con i loro ospiti. La ricerca in questo ambito è importante anche per sviluppare terapie che sfruttino alcune caratteristiche dei virus, per esempio per distruggere le cellule tumorali.

Project Defuse non fu approvato e non fu quindi mai finanziato, ma per chi sostiene l’ipotesi del laboratorio non ci sono elementi per escludere che a Wuhan gli esperimenti fossero stati realizzati ugualmente, forse in condizioni non ideali di contenimento. Shi Zhengli, la responsabile della divisione che si occupa di coronavirus nel centro di ricerca, ha sempre negato questa circostanza e in più occasioni ha detto che i suoi ricercatori non hanno mai trovato corrispondenze tra le sequenze genetiche dei virus utilizzati nel laboratorio nel periodo 2004-2021 e il SARS-CoV-2. In molti si sono però chiesti se la responsabile sia libera di dare tutte le informazioni o se abbia ricevuto pressioni dal governo cinese, che in questi anni ha esercitato un forte controllo su cosa si può dire o non dire anche intorno all’attività scientifica sul coronavirus.

Shi Zhengli in uno dei laboratori dell’Istituto di virologia di Wuhan, in Cina, nel 2017 (Chinatopix via AP)

Dopo un lungo periodo in cui l’ipotesi del laboratorio era piuttosto in voga e raccontata sui media di mezzo mondo, in particolare degli Stati Uniti, all’inizio di marzo del 2023 una nuova ricerca sembrò ridimensionare la questione. Era basata su informazioni genetiche ottenute tramite l’analisi di campioni raccolti da maniglie, utensili e altre superfici nel mercato di Wuhan all’inizio del 2020, ma mai resi pubblici. Lo studio mostrava come ci fosse una stretta vicinanza tra i punti in cui erano state rilevate tracce di materiale genetico riconducibili ai cani procione e i punti in cui c’erano tracce del coronavirus. Non era la prova definitiva dell’arrivo del virus al mercato di Wuhan e da lì della sua diffusione tra gli esseri umani, ma dava nuovi elementi a conferma dell’ipotesi dell’origine naturale del SARS-CoV-2.

La mancanza di dati su cosa ci fosse veramente al mercato alla fine del 2019 rende comunque impossibile avere conferme. Non si può escludere che fossero state alcune persone già infette a trasmettere il virus ai cani procione, noti per essere molto suscettibili al coronavirus, e che un luogo molto affollato come quel mercato avesse semplicemente fatto da cassa di risonanza, facilitando i contagi partiti da alcuni dei suoi visitatori.

Le autorità cinesi hanno sostenuto di avere analizzato almeno 80mila animali nei primi tempi della pandemia, ma molti di loro erano conservati negli zoo o erano animali da allevamento, mentre non risultano indizi sulla presenza di cani procione e altre specie che si ritiene fossero presenti al mercato. Ammettere che fosse ancora tollerata nel 2019 la vendita di animali selvatici vivi metterebbe il governo cinese in una posizione molto difficile e danneggerebbe la sua reputazione a livello internazionale. Lo stesso avverrebbe nel caso di una effettiva fuga accidentale dal laboratorio di Wuhan, e questo spiega le reticenze nonostante le ripetute richieste da parte dell’OMS e della comunità internazionale.

Per ricondurre con un buon livello di sicurezza le origini del virus che causa la SARS a uno specifico genere di pipistrello (Rhinolophus) furono necessari 15 anni di indagini. A volte il caso fa sì che ci voglia meno, in altre circostanze possono essere necessari decenni e le risposte spesso non sono definitive. È un lavoro complesso, talvolta ostacolato da governi che non sono interessati a far emergere loro negligenze, e che è più difficile da comunicare e spiegare rispetto a un’ipotesi all’apparenza lineare come: qualcuno ha fatto un errore in un laboratorio.

David Quammen, rispettato divulgatore e autore di libri di successo sulla diffusione di virus e malattie come Spillover, ha riflettuto proprio su questi aspetti in un lungo articolo pubblicato un paio di anni fa sul New York Times:

Molti di noi si fanno un’opinione dopo una meticolosa ponderazione empirica degli indizi. Ci affidiamo istintivamente ai nostri preconcetti, oppure facciamo nostre storie con trame semplici, personaggi buoni e cattivi che seguono traiettorie melodrammatiche che appaiono consone per portata all’evento in questione. Il processo di scoperta scientifica è qualcosa di complesso che coinvolge la raccolta di dati, la verifica delle ipotesi, la loro falsificazione e revisione e ulteriori test grazie al lavoro di esseri umani intelligenti, ma fallibili.

Quammen dice che si è ormai arrivati al punto in cui non sono gli indizi a essere messi a confronto, «ma è un confronto tra storie». E questo confronto sarà probabilmente più difficile ora che Donald Trump ha iniziato il proprio secondo mandato da presidente, mettendo a capo del dipartimento della Salute Robert F. Kennedy, che nel periodo della pandemia aveva diffuso molte teorie cospirazioniste sul COVID-19 e sul ruolo di Anthony Fauci nella gestione dell’emergenza sanitaria.

Secondo i più scettici, non sapremo mai che cosa accadde veramente negli ultimi mesi del 2019 a Wuhan, ma avvicinarsi il più possibile alla realtà dei fatti potrebbe rivelarsi essenziale per il futuro. L’11 febbraio il Gruppo consultivo scientifico per le origini dei nuovi agenti patogeni dell’OMS (SAGO) ha pubblicato un rapporto contenente le linee guida sugli studi da condurre per «indagare le origini di patogeni emergenti o riemergenti», in modo da avere strumenti condivisi e trasparenti per contenere nuove crisi sanitarie globali.

Il documento segnala l’importanza di effettuare da subito indagini nei luoghi dove è stata rilevata per la prima volta una malattia infettiva causata da un nuovo patogeno, così come la necessità di collaborazione tra governi e istituzioni sanitarie. Il preambolo è dedicato alla pandemia di COVID-19, la Cina non viene citata.

Redazione il Post

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