Hanno sfoderato un coltello con aria minacciosa. Le hanno danneggiato l’auto. L’hanno presa a sassate.
di Cristina Nadotti
Però Gigliola Magliocco parla delle nottate passate nei canneti a disturbare i bracconieri a caccia di storni, o delle interminabili perlustrazioni nella macchia mediterranea per rimuovere tagliole e lacciuoli, con il sorriso sulle labbra. “È faticoso – ammette la responsabile della Riserva naturale di Torrile, in provincia di Parma, gestita dalla Lipu – ma non mi sembra di fare qualcosa di straordinario, mi sembra soltanto di non sprecare la mia vita”.
Quando ha dichiarato guerra ai bracconieri?
“Ho una formazione scientifica, ho studiato scienze ambientali e l’intenzione di impegnarmi per proteggere la biodiversità c’è sempre stata, fin dall’università dove sono entrata in contatto con un gruppo che organizzava campi di protezione anti bracconaggio sullo stretto di Messina. Ho cominciato lì come volontaria e di fronte a tanta brutalità, ad azioni così cruente, il desiderio di contrastare questo scempio si è rafforzato. Quando osservi uno splendido rapace che volteggia e poi lo vedi cadere per una fucilata non puoi restare indifferente”.
Quali sono le zone d’Italia dove il bracconaggio è più diffuso?
“Un po’ ovunque, ma il piano nazionale individua sette blackspot: io mi sono concentrata su Calabria e soprattutto Sardegna, in una di queste aree ad alto rischio che si trova nel Sarrabus. Il bracconaggio in Italia è una piaga, ma nell’area boscata della macchia del basso Sulcis e Sarrabus è davvero un dramma. Gli uccelli si concentrano lì durante la migrazione, perché in inverno trovano bacche di mirto, corbezzolo e cisto, è un’area di 70 mila ettari di macchia mediterranea, in territorio difficile e con un patrimonio inestimabile di biodiversità nei quali i bracconieri imperavano, perché rintracciarli è come andare a cercare un ago nel pagliaio. Siamo pochi a fare quest’attività ed è rischiosa. Nel 2003, quando ho cominciato, scendevo dall’auto chiedendomi se poi l’avrei ritrovata integra e mi inoltravo nei sentieri dei bracconieri trovando trappole ovunque”.
Non aveva paura?
“Sì, ma non vado mai da sola e ho sempre l’autorizzazione delle forze dell’ordine, perché in quanto associati Lipu siamo inquadrati come guardie volontarie venatorie. Però si fanno chilometri su sentieri persi nel nulla, senza punti di riferimento a parte quelli lasciati dai bracconieri, che tolgono piante, posizionano trappole a scatto, fili di ferro infilati nel terreno. Bisogna stare attenti a ogni cosa: il rischio maggiore sono le tagliole dentate, oppure i ‘tubifucili’, congegni artigianali che vengono posizionati ad altezza cinghiale e sparano pallettoni che ti falciano le gambe”.
E quando si incontrano i bracconieri?
“Sappiamo che non bisogna mai andare allo scontro diretto e in genere anche loro lo evitano. C’è stato chi ci ha minacciato direttamente, mostrando il coltello o lasciandolo intravvedere. La nostra forza è andare sempre in gruppo, loro sono in genere da soli. Una volta, un bracconiere dall’alto della montagna ci ha lanciato dei sassi addosso, ha preso su un piede uno di noi e dopo la denuncia se l’è cavata con pochi euro di multa”.
Chi sono i bracconieri?
“Prima molti erano persone che facevano caccia illegale come secondo lavoro, l’altra tipologia era quella dei disagiati, che non hanno nulla da perdere. Oggi sono rimasti soprattutto i disagiati, perché a chi ha un lavoro infrangere la legge non conviene più”.
Cosa alimenta il bracconaggio?
“Si parte dal contesto storico, quando gli uccelli erano una fonte primaria di proteine: in Sardegna fino alla fine degli anni ’70 avere nel piatto passeriformi, tordi, merli era tradizione. Ora è ormai uno sfizio culinario al quale non si vuole rinunciare: le tacculas sono uno spiedino con otto uccelli, tutti specie protette, e vengono venduti a seconda della stagione intorno ai 100 euro. Ristoranti e privati che acquistano dai bracconieri non si rendono conto che non soltanto stanno facendo una cosa illegale, ma anche una cosa pericolosa per la salute, perché sono carni con alta tossicità e carica batterica. Non a caso li fanno bollire in acqua e sale”.
In tanti anni di attività è cambiato qualcosa?
“Sì, Nel 2012 la Lipu ha abbinato alle azioni sul campo quelle di informazione. Sono andata di persona nelle scuole e alle assemblee pubbliche, con il terrore di non trovare la macchina fuori. Ho coinvolto le amministrazioni e ora le aggressioni non ci sono più, ma è un percorso ancora in atto. Facciamo ancora educazione ambientale e cerchiamo il dialogo, non accusiamo, vogliamo confrontarci. Siamo riusciti a portare la gente del posto a fare attività anti bracconaggio con noi”.
Il risultato più evidente?
“A Capoterra, dove il fenomeno è drammatico, una scuola mi ha chiesto di fare un giardino arredato con essenze di macchia mediterranea, che attira insetti e uccelli, per fare attività didattiche di osservazione a distanza, trattandoli come fauna selvatica senza abituarli all’uomo”.
Le nuove tecnologie vi aiutano?
“Sicuro. Intanto, durante le prime attività ci è capitato di perderci e trovarci a notte fonda a cercare la via del ritorno, ora i cellulari aiutano. Poi ci sono i droni e le fototrappole, utili soprattutto nelle attività anti bracconaggio nei canneti. Si deve andare di notte al buio, perché i cacciatori si inoltrano tra le canne dove dormono gli storni, poi li spaventano e li fanno finire nelle reti a centinaia. La tecnologia aiuta, ma i ritmi restano pesanti, si esce con ogni tempo, in inverno, e si deve stare attenti alle canne tagliate che i bracconieri piazzano per dissuaderci”.
Ma non si chiede mai “chi me lo fa fare”?
“Sì e no. Non nascondo che a volte sono esausta, che mi prende lo sconforto quando raccolgo lacci a centinaia e vedo quello scempio. Però è più forte il desiderio di non girarsi dall’altra parte ed è maggiore la felicità di vedere che una zona prima zeppa di tagliole rimane bonificata. E non sono sola: come me in Italia ci sono tantissime persone che ogni giorno evitano una morte atroce a delle creature”.