Questo titolo segna il ritorno di Teresa Battaglia, un personaggio molto amato dai fan dei thriller della oramai nota scrittrice friulana, un commissario di polizia “montanaro”, se così possiamo definirla, dato il contesto in cui prioritariamente si muove nelle sue storie.

di Bruno Izzo

Una donna oltre la mezz’età quieta, pacifica, una comune piccolo borghese, quasi un travet del lavoro di polizia, almeno all’apparenza, afflitta da più di un acciacco, ma che nasconde testa e soprattutto cuore di altra statura. Un livello fine, gentile e delicato di intraprendere un’indagine poliziesca.
Una poliziotta fortemente empatica non solo nei confronti delle vittime dei delitti su cui indaga, ma spesso, se non sempre, altrettanto sensibile e recettiva dei tormenti che avviluppano l’animo dei colpevoli, al punto da indurli a delinquere.

Non è una persona compassionevole, tutt’altro, è una donna invece altamente consapevole delle difficoltà, talora ostiche, crudeli, insensate e insormontabili che generano incolpevolmente certi mostri sociopatici, in verità vere aberrazioni sociali, che sono quindi in realtà storture da raddrizzare, se possibile, da redimere e recuperare in qualche modo, ma non da distruggere.
Proprio perché senza colpa.

Una prolifer dell’animo dei colpevoli di certi misteri delittuosi, al fine di porre fine ai reati, dunque, questo è in effetti il suo lavoro, in cui eccelle; ma direi di più, Teresa Battaglia è l’emblema delle donne toste e consapevoli della durezza che talora affligge l’esistenza, conscia appieno pertanto di come le cose spesso appaiono assai diverse da come sembrano a prima vista.

Teresa è una commissaria, come a voler dire come fanno tanti che lei è una donna che svolge il lavoro di un uomo; la Battaglia però è troppo intelligente per credere di dover dimostrare che lo fa meglio, si limita ad essere sé stessa, e lo fa diversamente, non reperta prove di accusa contro i colpevoli, compie uno step successivo, rinviene le accuse che portano il colpevole a dare prova di sé.
Lei stessa è la personificazione di quanto pensa, dà da subito, finanche ad un nuovo sottoposto, l’idea di una persona goffa che curiosa sulla scena di un crimine, quando invece è acuta ed osservatrice; restituisce dopo un poco che la si conosce l’immagine di una donna tosta e cocciuta, quando è invece fragilissima ed atterrita dal diabete ed altri malevoli infermità che l’affliggono.

Per queste sue peculiari caratteristiche, il personaggio Teresa Battaglia con solo un paio di titoli ha conquistato numerosi fan del genere thriller, consacrando la sua creatrice.

Anche se, come dimostrato di recente anche nel suo penultimo lavoro, Ilaria Tuti non la definirei come una scrittrice di thriller, sarebbe riduttivo, la Tuti è un’artista sensibile che nelle sue storie, scritte bene, con un linguaggio semplice e forbito insieme, come se cesellasse parole su un ordito di seta, riesce a rendere mirabilmente un vissuto che rispecchia, direi con assoluta fedeltà la tempra, la magia e l’incanto delle sue montagne e dei suoi luoghi natali.
Dove convivono felicemente i colori, la delicatezza, la regalità e allo stesso tempo la tenue fragilità delle stelle alpine, che resistono tenacemente ad ogni avversità, specie di origine umana, strettamente avvinte sulla roccia dell’esistenza, come efficacemente reso al meglio nel suo più recente successo “Fiore di roccia”.

“Luce della notte” è come quello un racconto lirico, poetico, dolcissimo e struggente, con un sottofondo doloroso.
Perché parla di sogni, e di quelli più teneri, fragili e delicati, quelli di una bambina, per di più una bambina afflitta da una rara malattia, di quelle patologie sconosciute e sconcertanti, una sindrome che le impedisce di vivere alla luce del sole.
La piccola Chiara è perciò condannata, non tanto dalla bistratta deviazione genetica di una Natura matrigna, ma dalla stupidità dei precettori umani, a trascorrere la sua esistenza al calare delle tenebre, rischiarando il suo visetto solo con la luce della notte.

Per questo gli istitutori più crudeli, i pari età, l’etichettano come fantasma, o vampiro, o quanto altro la fantasia infantile sa escogitare per bollare il diverso.
Quando in realtà il segnare la “collega” compagna di giochi è avvertita dai sodali più come una doverosa esigenza, come tale trasmessa dalla crudele smania degli adulti maestri e educatori, fini pedagoghi al punto di rendersi stupidamente dimentichi di quanto i bambini siano attenti e scrupolosi ad imitarli, specie nel segnare a rosso ogni tratto fuori da una presunta logica tranquillizzante.
I bambini imitano gli adulti, sempre, nel bene e nel male:
“…i bambini sono spugne. Ascoltano sempre, anche quando sembrano assorti in altro, e ripropongono a distanza di tempo quanto appreso, spesso in modi rielaborati e fantasiosi, senza ben sapere perché lo facciano o dove abbiano attinto l’informazione.”
Poiché ad una bambina l’essenza vitale viene fornita proprio dai coetanei, i soli che permettono il regolare fluire della crescita, ecco che Chiara viene privata dei suoi bisogni, i bisogni di affetto, di luce, di calore, di compagnia, ed anche di confronto, di scontro, di competizione con i propri simili, proprio nel periodo delicato della crescita in cui non bastano più l’amore e l’attenzione solo genitoriale, serve la presenza dei coetanei, null’altro può riempire la solitudine del crescere.

Ad un bambino servono sogni e bisogni; privata dei secondi, a Chiara restano solo i primi.
Poiché sono gli unici che le restano e la caratterizzano, sono di estrema importanza, soprattutto per una mamma. Se il sogno si fa inquietante, se soprattutto riguarda un altro bambino, ed un presunto fatto delittuoso, una mamma, solo perché tale, si rivolge a chi sui delitti indaga per mestiere.
Che indaga, che raccoglie la denuncia, che si attiva, e lo fa contro il parere di tutti, anche se tutti gli indizi hanno solo e soltanto una base onirica, un riferito senza riscontro.
Teresa Battaglia indaga incredibilmente ma con serietà su un sogno: la bambina che sogna, e riferisce il sogno, è certo bellissima, ma anche inquietante, ma il commissario, che è donna, ed è donna con qualche diversità, non indugia, sa che quello che turba non è il sogno, quello ha una base logica, ma è altro:
“…è la diversità. Turba e allontana. Non permettere che lo faccia anche con te.”.
Perciò la Battaglia crede al sogno riferito: nel sogno la bambina canta…e conta.

“L’inconscio non sa contare…Ecco perché nei sogni non siamo capaci di digitare un numero di telefono che conosciamo a memoria, o di scriverne uno banale.”
Indaga il commissario, e lo fa a modo suo con scrupolo, con testardaggine, con acume, malgrado il suo stesso fisico malandato la ostacoli; ricorre allora al supporto di Marini, un giovane poliziotto, quasi un suo discepolo e figlioccio, e scopre una realtà che viene dai vicini confini, una realtà dove:
“…le donne restano nei paesi di origine a occuparsi degli anziani. Preferiscono affidare i figli alla sorte, che consegnarli a un destino di miseria…I bambini cercano una guida, qualcuno che si occupi di loro, e si fidano…”
Serve fare chiarezza, la chiarezza è una delle strade che porta alla giustizia…e chiarisce i sogni.

Li rivela per quello che sono, la verità a proposito di una nefandezza umana:
“…vendita di un capretto da latte…” .
Il romanzo ha un lieto fine, che però forse scontenta i lettori: una conclusione troppo semplice, troppo banale, finanche troppo buonista, in un certo senso.
Tuttavia, è comprensibile, a mio parere, e condivisibile, direi addirittura logico, non poteva terminare diversamente: dicevamo che Ilaria Tuti non scrive thriller, ed infatti questo è un romanzo di sentimenti, non un enigma. E le emozioni sono presenti, rese evidenti.
Lo scopo dei sentimenti, tra l’altro, è anche quello di rielaborare una sensazione dolorosa.

Ilaria Tuti ha scritto questo romanzo tre volte, perciò il libro possiede una triplice valenza: una volta prima di tutto per sé stessa, come ogni brava scrittrice deve saper fare, poi in memoria per una bambina che conosce e infine in onore della bambina che reca in sé, e che ogni tanto fa capolino e le racconta i suoi sogni, solo a lei, che poi giusto lei riversa abilmente su carta, per noi.

In definitiva, lo ha scritto per i bambini, perché gli siano garantiti sogni e bisogni: fa questo, ci mette del suo, ed è tanto, e non è da tutti.

Credo non esista un sentimento più nobile, di triplice valenza.

 

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