Prologo
Il 6 settembre 1880 a Milano il sole sorge timido sulla città, ma già ben caldo. La mattina prestissimo sono circa trecento gli uomini sparsi in varie abitazioni ed hotel a prepararsi per partecipare al secondo “Congresso internazionale pel miglioramento della sorte dei sordomuti”. Sopra al mutandone che comunemente usano, una sorta di tuta aderente abbottonata sul davanti, per le occasioni più formali è d’uso in questi casi indossare un completo da giorno come il frac, appaiato con pantaloni leggeri di forma tubolare, di poco svasati verso il fondo.
Il congresso avrebbe dovuto svolgersi a Como, ma si era poi scelta Milano per via della presenza dell’Istituto Regio adibito all’educazione dei Sordi, e del Pio Istituto Sordomuti Poveri di Campagna. Nonostante il comitato di Parigi avesse indicato il francese come lingua ufficiale delle conferenze, si opta per l’italiano: ognuno rimane comunque libero di esprimersi nella propria lingua.
All’ora stabilita, gli operatori invitati al congresso varcano la soglia del Regio Istituto Tecnico di Santa Maria e cominciano ad affollare le sale più ampie dell’edificio. Sono tutti vestititi di scuro, la maggior parte di loro indossa un cappello a cilindro.
Provenienti da una decina di paesi europei, le delegazioni sono guidate dal reverendo Thomas Gallaudet e dal professor Edward Gallaudet, arrivati dagli Stati Uniti.
Il lunedì è solo l’inaugurazione dell’assemblea: si fa il censimento e si dà il benvenuto ai partecipanti, che poi sono liberi di girovagare per la città e approfondire, a gruppi di pochi individui, le conoscenze personali per scambiarsi le prime opinioni sul lavoro.
La discussione vera e propria inizia il giorno seguente, martedì 7 settembre: è un elogio plebiscitario del metodo di insegnamento orale. Solo Edward Gallaudet asserisce che, pur rispettando la logopedia oralista, il metodo misto è invero importante, e afferma, secondo quanto riportato dagli atti scritti del Congresso, che «anche ai sordomuti che parlano bene, i gesti e la dattilologia sono aiuti molto preziosi». Il reverendo Gallaudet, suo fratello, afferma che è possibile, sui grandi temi, che gli uomini abbiano opinioni differenti e sostiene, differentemente dal resto dell’assemblea, che i gesti, quanto la parola, siano importanti nell’educazione dei sordomuti. Interviene quindi il cappellano francese Buchet, che si definisce “partigiano della parola”. Da queste opinioni divergenti nasce un lungo dibattito, che termina con una votazione ad alzata di mano: la maggioranza dei partecipanti si schiera dalla parte della logopedia oralista e il presidente del Congresso, don Giulio Tarra, chiude la riunione gridando “Viva la parola”.
Sabato 11 settembre si arriva alla conclusione. Il metodo oralista viene definitivamente considerato superiore a quello dei segni, poiché i sordi istruiti con il metodo orale puro non dimenticano le nozioni apprese dopo gli studi, ma anzi le continuano a coltivare grazie alla conversazione e alla lettura. Viene stabilito che i sordi nelle conversazioni con i normodotati debbano servirsi esclusivamente della parole e, inoltre, che l’uso della parola e della lettura labiale si possa coltivare continuamente con l’esercizio.
Gli atti del congresso sono stampati l’anno successivo, nel 1881, a Roma, presso la tipografia Eredi Motta, con prefazione di Pasquale Fornari, colui che ha compilato gli Atti stessi.
Dal Congresso Internazionale per l’Educazione dei Sordomuti di Milano, passano le risoluzioni che proibiscono l’uso della lingua dei segni nelle scuole e favoriscono l’educazione dei Sordi alla logopedia puramente oralista, che da quel momento viene considerata superiore alla lingua dei segni.
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La lingua dei segni è la lingua naturale dei sordi, una lingua che fatica ancora oggi a essere riconosciuta come tale, ad esempio in Italia, dove non è considerata per legge una lingua vera e propria, sebbene una proposta a tale riguardo sia stata approvata dal Senato nel 2017, ma mai dalla Camera.
Si parla di “lingua naturale dei sordi” anche se sono molti oggi i sordi puramente oralisti, ovvero che non conoscono e non parlano la lingua dei segni. È in ogni caso una lingua che ha una storia sviluppatasi di pari passo con la microcoltura della comunità sorda, e che come tutte le minoranze e i sottogruppi interni a società più ampie ha subito nel tempo grandi ingiustizie.
Una parentesi: il termine “sordomuto” non è più ufficialmente utilizzato ed è stato sostituito in Italia dal lemma “sordo” con la legge n.95 del 20 febbraio 2006. In generale, è sbagliato definire i sordi come sordomuti, perché nella maggior parte dei casi le difficoltà che riscontrano nella comunicazione orale sono dovute al deficit uditivo.
A una tra le tante iniquità subite dai sordi si faceva riferimento già nel prologo; è rappresentata dalla Seconda Conferenza Mondiale sull’Educazione dei Sordomuti, avvenuta a Milano tra il 6 e l’11 Settembre del 1880 e in occasione della quale, come abbiamo visto, la lingua dei segni venne ufficialmente vietata in tutti gli istituti per sordi del mondo, a favore di un’educazione puramente oralista.
Le lingue segnate sono lingue che, a differenze di quelle orali, viaggiano sul canale visivo-gestuale e non su quello uditivo e vengono utilizzate dalla maggioranza delle persone non udenti.
I segni della LIS, la Lingua dei segni italiana, e di tutte le lingue segnate del mondo, non sono semplici gesti, ma corrispondono a regole grammaticali, sintattiche e pragmatiche che mutano nel tempo e si evolvono, proprio come fa ogni altra lingua viva sul pianeta. Con le lingue dei segni si può comunicare tutto, si dispone naturalmente di un registro alto e di uno basso, di uno formale e uno informale, di modi di dire propri della lingua e della cultura di appartenenza, e si possono raccontare barzellette, fare scherzi, segnare poesie e opere teatrali. Insomma, sembra banale sottolinenarlo, ma è importante sapere, per chi non ha dimestichezza con questo linguaggio, che tramite la lingua dei segni è possibile comunicare qualsiasi cosa e in differenti modi, senza differenze sostanziali rispetto alla lingua orale.
Con la LIS, per formare delle parole di senso compiuto si devono coordinare dei precisi parametri: il movimento e l’orientamento della mano, il luogo che occupa la mano nello spazio e la configurazione, ovvero la forma assunta dalla mano. Attraverso alterazioni sistematiche del luogo di esecuzione dei segni e a secondo della durata, dell’intensità e dell’ampiezza del gesto, si definiscono la grammatica, i tempi dei verbi e la sintassi. Non tutti i sordi, però, vengono sin da piccoli educati alla lingua dei segni e questo concorre a rendere la sordità, definita come la riduzione più o meno grave dell’udito, un fenomeno eterogeneo, e per diverse ragioni.
Prima di tutto la diversificazione dell’ipoudenza è rappresentata dalle cause della sordità, che possono essere diversissime tra loro e sono, ancora oggi, uno degli aspetti meno chiari della diagnosi. Esistono sordità di natura ereditaria prenatale, di natura acquisita, oppure perinatale, quindi insorte durante la nascita, o ancora postnatali, come le sordità ereditarie e genetiche progressive che non si manifestano alla nascita, ma con il passare degli anni. Questo vuol dire che ci sono persone che nascono sorde e che devono imparare a comunicare senza avere il supporto dell’udito sin dai primi vagiti, altre che lo diventano con l’età, quindi dopo avere assimilato la capacità di esprimersi come un normoudente.
La sordità è un fenomeno variegato, anche perché non tutte le persone ipoudenti comunicano nello stesso modo: la maggior parte dei bambini sordi nasce da famiglie udenti (in Italia sono il 95%), famiglie che scelgono per loro un’educazione oralista, che non contempla l’apprendimento e l’uso della lingua dei segni. Questo però non significa che la lingua dei segni sia parlata solo dal restante 5% della popolazione sorda: una grandissima percentuale di persone audiolese entra in contatto con persone segnanti a prescindere dalla logopedia scelta e impara la lingua in diverse circostanze ed età, sviluppando così profondi rapporti umani con altre persone sorde.
Il fatto che non tutti i sordi imparino la lingua dei segni dipende forse da un pregiudizio, che però non ha nessuna basa scientifica, cioè che l’apprendimento di una lingua segnata, come anche l’uso di forme di gestualità spontanee, possa ostacolare più o meno profondamente l’apprendimento della lingua parlata e scritta. In realtà, diversi studi scientifici dimostrano proprio il contrario: secondo una ricerca apparsa su Nature nel 2002, l’apprendimento di una lingua segnata non interferirebbe negativamente con l’apprendimento della lingua orale, ma anzi, potrebbe facilitare l’apprendimento dei processi di comprensione linguistica. Inoltre, anche secondo altri studi la lingua segnata svolge una funzione sociale per la persona non udente e favorisce lo sviluppo cognitivo e l’interrelazione tra le persone sorde, poiché fa sì che le loro esigenze cognitive e sensoriali vengano soddisfatte attraverso questo metodo di comunicazione, a loro perfettamente congeniale. In aggiunta, intraprendere la strada esclusiva della logopedia oralista può essere difficile per le persone ipoudenti affette da sordità gravi e profonde, perché questo tipo d’insegnamento si basa anche sull’udito residuo della persona, che chi è affetto da sordità gravi non ha: per questo, se un bambino affetto da sordità profonda viene spinto comunque a una logopedia oralista, è facile che rimanga indietro sullo sviluppo cognitivo e intellettuale rispetto ai suoi coetanei, sviluppando lacune che difficilmente potranno essere colmate nel tempo e che determineranno negativamente tutta la sua vita futura. È provato, infine, che solo il 25% delle persone sorde riesce con successo ad apprendere la lingua parlata, con il risultato che queste sono comunque escluse da conversazioni che avvengono con due o più persone udenti, perché né il migliore sfruttamento del residuo uditivo né una lettura labiale più performante possono supportare un sordo in una tale impresa.
Sono molti, quindi, i risultati scientifici che hanno rafforzato l’idea che le lingue dei segni possano venire utilizzate a fini educativi accanto alle lingue vocali e scritte, affiancando l’insegnamento della lingua parlata all’insegnamento dei segni, un metodo chiamato bi-modale, che contempla per la persona sorda e in alcuni casi anche per gli alunni normodotati l’apprendimento di due lingue che utilizzano due modalità di espressione differenti. In Italia, nella scuola ordinaria, oggi si può richiedere, già dal nido e sino alla scuola superiore, un’assistente alla comunicazione che dovrebbe affiancare l’insegnante di sostegno e che dovrebbe favorire l’apprendimento dell’alunno sordo, insegnando anche la LIS al bambino, se la famiglia lo desidera. Esistono inoltre, ma sono pochissime in Italia, delle scuole completamente bilingui, dove i bambini sordi sono integrati con gli alunni normodotati, in modo che entrambi possano imparare le due lingue il più precocemente possibile e in cui le attività didattiche sono svolte sia in lingua parlata che nella lingua dei segni, evitando quindi di creare, già a partite dalla scuola dell’obbligo, delle generazioni di grandi esclusi.
Da queste premesse si può facilmente comprendere che la lingua dei segni dovrebbe essere considerata una risorsa, una ricchezza, e non un supplizio o una menomazione. Ma allora perché ancora oggi così tante famiglie scelgono per i loro bambini non udenti la strada dell’oralismo puro? E perché, ad esempio, durante la Conferenza di Milano del 1880 moltissimi esperti in materia si batterono per estirpare questa lingua dalla cultura sorda? Come si chiese McGregor, primo presidente dell’Associazione Nazionale dei Sordi d’America:“quale atroce crimine hanno commesso i sordi, perché la loro lingua debba essere prescritta?”.
La sordità è un handicap che viene definito invisibile: se l’ipovedente è associato, nell’immaginario comune, al bastone bianco e agli occhiali neri, e l’invalido all’uso della sedia a rotelle, la persona sorda non può di primo acchito essere distinta da una persona normodotata, ammesso che non stia comunicando in lingua dei segni con un’altra persona. Comunicare segnando diviene quindi l’unico elemento distintivo che una persona sorda ha in apparenza rispetto agli altri.
Una scelta così radicale come quella di vietare l’insegnamento della lingua dei segni alle persone non udenti fa parte di quella visione del mondo e di quella cultura che è intollerante rispetto alla ricchezza e alla bellezza della diversità umana, e cerca invece di imporre un modello cui tutti devono uniformarsi, per non essere considerati inferiori. Si può quindi intuire che il rapporto tra le persone sorde e l’istituzione ha caratterizzato la storia stessa della microcultura dei sordi e la diffusione, l’apprendimento e l’atteggiamento rivolto verso la lingua dei segni.
La storia della lingua dei segni è probabilmente antica come la storia dell’umanità stessa; viene attestato, ad esempio, che persone sorde parlassero tra loro già nell’antica Grecia, senza che però fosse riconosciuto a questa forma di comunicazione lo status di lingua, anche perché le persone sorde, almeno in occidente e sino all’illuminismo, venivano considerate degli esseri inferiori e quasi privi di intelletto. Non si sa quando si sia cominciato a considerare la lingua dei segni come una lingua vera e propria; Sant’Agostino parla nella sua corrispondenza di una famiglia sorda dell’alta borghesia milanese che si esprimeva a gesti in una maniera che sembrava proprio una vera lingua. San Geronimo dice che grazie all’uso dei segni, degli allievi sordi erano in grado di capire il Vangelo. Ma fu il monaco benedettino spagnolo, Pedro Ponce de Léon, che per primo rese pubblico il suo metodo per comunicare con i sordi e per farli parlare, che consisteva in una serie di segni manuali per ogni suono dell’alfabeto fonetico spagnolo, derivati da un sistema che già utilizzavano i monaci per pregare. De Léon aveva così istruito una famiglia nobile e sorda spagnola a comunicare tra di loro e con il mondo esterno, ed era stato importante, poiché per legge l’eredità poteva andare solo a chi fosse, attestatamente, in grado di parlare.
Alla fine del diciottesimo secolo iniziava in Francia l’educazione sistematica di tutte le persone sorde, grazie all’Abbé de l’Epée, poiché si cominciava a riconoscere formalmente la capacità di pensare e di comunicare dei sordi, e si cercava inoltre di avvicinare questi al sapere religioso. La lingua dei segni è stata prima considerata mancante di grammatica e di sintassi, quindi riabilitata e innalzata a status di lingua, soprattutto grazie il lavoro di un successore di L’Epée, August Bébian (1789 – 1839), che per primo decise di insegnare ai bambini sordi utilizzando proprio la lingua naturale dei sordi, rompendo con i segni metodici. Bébian è il primo professore udente che riconosce il valore della lingua dei segni e crea un dizionario che traduce tra la lingua dei segni francese in francese. Come conseguenza del suo lavoro si ha una legittimazione degli insegnanti sordi, che possono assumere il ruolo di professori in istituti scolastici destinati a moltiplicarsi, prima in Francia e poi in tutta Europa e negli Stati Uniti.
Nel 1830 circa, l’insegnamento nell’Istituto Nazionale per Sordi di Parigi e negli istituti aperti in tutta Europa e in America avveniva così nella lingua dei segni: agli alunni ipoudenti veniva insegnata la lingua dei segni del paese, imparavano poi a leggere e a scrivere, e anche una serie di materie tecniche e pratiche che preparavano gli studenti alla vita lavorativa. Fu in quegli anni che negli istituti vennero formati matematici, chimici, incisori, pittori, scultori, poeti, che a loro volta costituivano il quaranta per cento dei professori negli istituti per sordi. Anche questo è un aspetto importante, perché spesso gli alunni sordi preferiscono avere insegnanti sordi, da cui possono essere capiti meglio e che a loro volta conoscono le difficoltà che gli alunni devono affrontare, sia dentro che fuori dalla scuola.
È però con la Seconda Conferenza Mondiale sull’Insegnamento dei Sordomuti, di cui si scriveva nel prologo, che la lingua dei segni viene ufficialmente bandita. E’ a causa di questa decisione, che avrà ripercussioni quasi sino ai giorni nostri, che una grande quantità di alunni sordi educati oralmente si fermerà a una cultura appena elementare e verrà avviata ad una formazione professionale, esclusivamente di tipo pratico.
Per assistere alla rinascita definitiva della lingua dei sordi bisogna attendere quasi cent’anni, cioè il sessantesimo Congresso della Federazione Mondiale dei Sordi di Parigi, che ci tiene nel 1971 e durante il quale i sordi cominciano a prendere coscienza dell’importanza della loro lingua, soprattutto guardando il lavoro dei traduttori simultanei americani. Dagli anni ’80 in poi la cultura dei sordi si è sempre più affermata, tanto che un numero via via maggiore di paesi ha riconosciuto la lingua dei segni come lingua ufficiale nel loro paese. Nel 2010, durante il Congresso sull’Educazione dei Sordi di Vancouver, in Canada, è stata finalmente pronunciata una nota di scuse ufficiale per via delle decisioni prese durante il Congresso di Milano del 1880 e per le conseguenze estremamente negative di una tale proibizione sui sordi, in violazione di diritti umani e costituzionali.
Oggi in diversi paesi, tra cui Danimarca, Francia, Spagna e Svezia in Europa, si va affermando un modello di educazione bilingue, dove gli alunni sordi imparano la lingua dei segni come lingua primaria e solo in seguito apprendono la lingua parlata. Si è compreso quanto sia importante per lo sviluppo culturale del bambino l’avviamento verso una situazione di bilinguismo, supportata anche da un costante rapporto con adulti sordi preparati e con la comunità dei sordi in generale. Come la conoscenza di due o più lingue costituiscono una ricchezza nel bambino normodotato, il bilinguismo bimodale lo è ancora di più in caso di bambini con un deficit uditivo. Secondo Carmela Bertone e Francesca Volpato, docenti Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’università Ca’ Foscari di Venezia, il bilinguismo bimodale condivide alcuni aspetti con il bilinguismo unimodale, ma in più ha un’influenza positiva sulla lettura, che può risultare problematica nel bambino sordo, e inoltre aiuta i bambini sordi ad aver più consapevolezza degli stati d’animo di chi comunica con loro.
Virginia Patrone è urbanista e scrittrice, radio speaker, illustratrice, pensatrice libera e libertaria. Scrive e disegna per capire il mondo. È nata a La Spezia (1985) ed è cresciuta a Genova. Ha studiato e vissuto in molti paesi diversi e ora vive in uno sperduto villaggio in Anatolia. Quando l’idea di essere remota la spaventa pensa a Tilda Swinton: la lontananza è oggi uno status mentis. Se andasse a Hogwarts la sua casa sarebbe Rowanclaw. Se fosse un elettrodomestico, forse sarebbe una lavapiatti, invenzione di una donna.
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