Come ci stiamo abituando ai sottotitoli

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Una scena di Skam Italia sottotitolata in inglese

C’è un discorso, affine e conseguente, a quello fatto negli ultimi anni a proposito del doppiaggio: è quello sui sottotitoli, che sono ormai entrati nell’esperienza di fruizione televisiva di moltissime persone. Non è una questione nuova, ma grazie all’ascesa delle piattaforme di streaming da una parte e dei contenuti video sui social network dall’altra, si connota oggi in maniera decisamente diversa rispetto al passato. I sottotitoli, infatti, hanno tradizionalmente svolto due funzioni: una di fondamentale supporto per le persone sorde, e l’altra, di natura più artistica, per veicolare prodotti audiovisivi che sarebbero stati “snaturati” da un eventuale, per quanto accurato, doppiaggio. Ecco perché, fino a non troppi anni fa, quando si parlava di sottotitoli ci si riferiva principalmente al cinema e, molto spesso, al cinema autoriale non anglofono. Solo nel 2014, Variety e IndieWire discutevano della nuova, acquisita confidenza con i sottotitoli del pubblico negli Stati Uniti: per il primo stava aumentando ed era un segno dei tempi oltreché di un rinnovato interesse verso la produzione artistica non americana, per il secondo, invece, era in contraddizione con il parallelo abbandono delle sale, in particolare quelle d’essai che trasmettevano film stranieri.

Con l’affermarsi del modello Netflix, capace di installarsi localmente e offrire una grande quantità di contenuti realizzati in altrettanti Paesi diversi, sempre più persone hanno avuto accesso a film e serie tv realizzati in lingue diverse dalla propria e, per una porzione non indifferente, dall’inglese; su Studio avevamo scelto 5 serie tv da tutto il mondo (India, Israele e Giappone tra gli altri) per rifuggire all’assurda richiesta di “sovranismo televisivo” di certe parti politiche italiane. Contemporaneamente, la svolta video dei principali social ha contribuito a rendere quotidiana un’abitudine che fino a non troppo tempo fa era decisamente più circoscritta: quante volte ci capita di guardare, in muto, e magari ricondividere video su Facebook, Twitter o Instagram? D’altra parte, circa l’85% degli utenti fruisce i video su Facebook in muto, utilizzando perciò i sottotitoli. Ma le community online dei “subber”, sottotitolatori spesso per hobby a volte per professione, sono ben più antiche. Come ha raccontato Jacopo Musicco su Donna Moderna, la loro origine si può far risalire ai college americani negli anni Ottanta, quando gruppi di studenti si organizzarono per superare la censura che aveva colpito gli anime giapponesi e misero in piedi una sorta di distribuzione alternativa di copie pirata. «La procedura rimase per molti anni costosa e complessa a livello tecnico, limitando la diffusione dei materiali piratati; quello che però nacque da questa esperienza fu l’idea che un collettivo di persone potesse decidere di non rispettare le scelte del mercato e operare a favore della diffusione di un contenuto, come fan e per i fan», spiega Musicco.

Un’esperienza che si è traslata in maniera molto naturale su Internet, dove i subber hanno provveduto negli anni (e provvedono ancora) a sottotitolare le serie tv per gli streaming e i download illegali, costruendo community che sono diventate punto di riferimento imprenscindibile per moltissimi utenti (basta fare l’esempio di Add7cted oppure di Italiansubs e Subsfactory in Italia, la cui chiusura ha segnato la fine di un’era). Non è un caso che quando Netflix ha sottotitolato (malamente) Evangelion si sia scatenata una piccola rivolta tra i fan italiani: così è arrivato presto il post di scuse e la promessa di un aggiornamento/aggiustamento dei sottotitoli. In molti casi la sottotitolazione è automatica e produce perciò nonsense ed effetti comici involontari: i servizi di streaming ci stanno lavorando su, anche perché gli spettatori sono molto esigenti a riguardo, soprattutto quando si parla di determinati prodotti culturali come gli anime o la stand-up comedy (si pensi all’esperienza italiana di ComedySubs). Uno dei più recenti casi di viralità raggiunta da una serie tv grazie all’impegno spontaneo degli utenti è sicuramente Skam, che dall’originale norvegese alla riuscitissima versione italiana si è diffusa inizialmente proprio grazie ai sottotitoli messi a disposizione dagli “autoctoni” prima ancora che dai canali ufficiali. Ha scritto Hannah J Davies sul Guardian che i sottotitoli oggi non riguardano più solo le persone non udenti, ma al contrario un grandissimo numero di persone: per tutti i motivi che abbiamo visto, per il fatto che tendiamo a fare più cose nello stesso momento (il famigerato multitasking dei Millennial) e, non da ultimo, per via dei meme. L’immagine ironica e sottotitolata è infatti l’esperienza internettiana per eccellenza ed è oggi familiare agli utenti di tutti i tipi, dai giovanissimi agli ultra sessantenni su Facebook.

Ci stiamo abituando, perciò, a “consumare” contenuti video con le scritte in evidenza e sono tanti gli autori che si interrogano sulla qualità artistica di quelle scritte: c’è chi pensa a come incorporarli nei propri lavori e chi invece non ne vuole sapere di “sporcare” l’inquadratura, soprattutto sul grande schermo. È un cambiamento di prospettiva interessante, perché riguarda il cinema, la tv e l’evoluzione del linguaggio dell’intrattenimento. Ci sono programmi, ad esempio, che oggi nascono per diventare meme (come Love Island nel Regno Unito, Temptation Island e Uomini e Donne in Italia) e che creano ad ogni stagione nuovi personaggi che ritroveremo inevitabilmente su Instagram e Twitter con tanto di frase ironica stampata sopra, ricondivisi moltissimo e altrettanto velocissimamente dimenticati. E ci sono poi film d’autore, come Roma di Alfonso Cuarón, che scatenano polemiche tutt’altro che triviali, come quando il regista si è arrabbiato per la scelta di Netflix di tradurre lo spagnolo del film, ambientato in Messico, per gli utenti, beh, spagnoli. Anche quella volta si litigava per i sottotitoli, e chi lo avrebbe mai immaginato.

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