Questo libro essenzialmente, in maniera garbata, sottile, discreta, parla di donne, tratta di violenza sulle donne, racconta di donne picchiate, maltrattate, violentate, discute di donne umiliate e brutalizzate dagli uomini, di bambine rapite a scopo di libidine e ritrovate massacrate, allude all’incesto, riflette sui minori abusati, offesi proprio nel luogo, la famiglia, che per definizione dovrebbe essere per le piccole vittime il rifugio più sicuro, protetto, tutelato, dove dovrebbero essere soltanto semplicemente amati e dove invece sperimentano l’inferno in terra.
Sono tutti argomenti di cui si parla maggiormente in questo periodo, quello della violenza sulle donne è un tema che quasi quotidianamente apre i titoli di giornali e telegiornali.
Tuttavia, è questa la sua particolarità, non è un libro fresco di stampa, non è un romanzo basato sui fatti d’oggi, è un romanzo, infatti, pubblicato nel 1994, oltre venti anni fa, eppure sempre attuale.
Già venti anni fa un’autrice colta e sensibile come la Maraini sentiva il bisogno di scrivere e di denunciare il femminicidio, il fenomeno era già preoccupante oltre venti anni fa; questo deve farci riflettere. Il libro è attuale non tanto perché la pur brava Dacia Maraini ha, in un certo senso, precorso i tempi, ma perché la violenza sulle donne è un fenomeno antico, non è nato ora come qualcuno crede ma è profondamente e tenacemente radicato da secoli, ed è terribile e terrificante insieme: in quasi tutte le società tradizionali, le donne rispetto agli uomini hanno sempre vissuto situazioni di subordinazione e discriminazione. Imposte sempre con la violenza, di tutti i generi: fisica, psicologica, sessuale. Sempre, e continua ancora oggi.
La società evolve, cresce, matura, ma questi delitti non diminuiscono, anzi, oggi questi fatti di violenza sono, purtroppo, drammaticamente in aumento.
Non è però un romanzo crudo, non descrive cinicamente le scene di violenza nella loro efferatezza, non indugia nell’esposizione dei particolari macabri e morbosi, piuttosto la Maraini si esprime, non meno efficacemente, in un sussurro, in un sommesso mormorio di voci, un raccontare a bassa voce; eppure la storia coinvolge, angoscia, emoziona, è la scrittura rapida ed incisiva, attenta ai particolari, ad alzare il tono delle voci. La singolarità del romanzo sta proprio in questo, nel fatto che la storia si evolve, in forma di giallo, e cioè attraverso il racconto dell’assassinio di una giovane donna, non tanto con l’usuale descrizione d’indagini poliziesche, resoconti, immagini, ma attraverso “voci”, voci di cui la protagonista fa attento ascolto quotidiano, fa impiego per motivi professionali, è infatti una giornalista della radio.
Voci che la protagonista, la giovane Michela Canova, incide su un registratore; sono voci delle interviste delle persone coinvolte o interessate, voci che lei raccoglie, magari pure a loro insaputa e nonostante la loro reticenza, e riascolta, filtra, pulisce, voci che dichiarano ciascuna una propria verità, voci che dissimulano, che piangono, che urlano, che ricordano, che giustificano.
Voci mai univoche, voci che rappresentano i vari aspetti della realtà, ciascuna a suo modo: le anime tormentate delle vittime danno voce alla propria angoscia, quelle dei colpevoli negano la verità a se stessi, con voce non meno chiara ed accorata.
Non si urla, in questo libro, non si alza la voce, è un libro di voci sussurrate, il volume non è alto, ma il frastuono, l’eco, il rumore della violenza e dell’ingiustizia, ci sono, sono presenti e assordanti, grandi, come grande è il dolore descritto: più che l’orecchio allenato è la sensibilità della giornalista, che ascolta con il cuore e con l’anima anziché con le orecchie e l’udito, che le permette di differenziare le voci che esprimono il tormento delle vittime da quelle che declamano le assurde scusanti giustificative dei colpevoli diretti ed indiretti. Più colpevoli, quindi: perché non c’è, né può esserci differenza o graduazione di colpa tra chi commette un abuso e chi quell’abuso permette con la propria inerzia ed il proprio silenzio consenziente.
La protagonista di “Voci”, la giovane radio giornalista Michela Canova, si trova coinvolta casualmente nell’omicidio della sua vicina di casa, una donna molto carina, semplice, riservata, che pure aveva incontrato poche volte nella sua vita, incrociandola casualmente in ascensore.
Contemporaneamente, le viene anche affidata un’indagine radiofonica sulla violenza sulle donne.
Le due storie procedono quindi parallelamente, intersecandosi inevitabilmente tra di loro tramite il comune denominatore della violenza dell’uomo sulle donne, e nel corso delle sue indagini e delle sue inchieste, la giornalista raccoglie le voci degli interessati a vario titolo nelle storie.
Dall’analisi delle voci la giornalista intravede le incrinature, le distonie, le dissonanze, non si fa ingannare dal tono caldo, melodioso e del tutto sincero della voce con la quale si possono finanche esporre le giustificazioni più assurde e inverosimili dei propri atti nefandi consapevolmente portati a termine, Michela conscia dell’uso distorto che si può fare della voce, giunge alla soluzione dell’assassinio, una soluzione banale ma non meno terribile e dolorosa, che lascia l’amaro in bocca, che lascia senza voce.
“Voci” possiamo dire, in definitiva, che è un romanzo sonoro, è un libro che, tramite la scrittura, ci fa “sentire”: ci permette di udire, con la parola scritta, i rumori di fondo, i toni, i frusci, i calpestii, i fremiti, i sospiri, i borbottii…e poi la verità, l’amarezza, il dolore, la vergogna, la bugia, la rimozione, la menzogna.
Forse “Voci” non è tra i romanzi maggiori della Maraini, tuttavia vale certamente la pena di leggerlo.
Perché Dacia Maraini è una grande scrittrice, che sa farci sentire le voci usando i segni della scrittura. Sentire le voci con i segni: come dire, “vedere” voci.
http://www.daciamaraini.com/
Bruno Izzo