Essere CODA: intervista a Tiziana Cecchinelli

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Tiziana Cecchinelli vive e lavora a La Spezia. Figlia di sordi, è impegnata nell’ambito della disabilità e nella rieducazione della letto-scrittura nei bambini sordi. Da anni collabora con scuole ed enti pubblici nell’intento di promuovere e sensibilizzare famiglie, insegnanti e operatori socio-sanitari all’utilizzo della Lingua dei Segni. Nel 2004 ha fondato la Cooperativa Sociale Percorsi di cui è stata per quindici anni presidente. Oggi come libera professionista lavora privatamente nella rieducazione dei Disturbi Specifici di Apprendimento. Attualmente è impegnata nella promozione del suo nuovo romanzo autobiografico “Peccato, io non sono sorda!” edito da Erga Edizioni.

1) Cosa significa per te essere CODA?
Essere Coda ha contribuito alla definizione della mia identità e direi anche professionalità. Si nasce Coda non per scelta e poi si lavora su di sé per accettarlo o meno, e questa è un’operazione che richiede impegno e forte motivazione personale.

2) Come e quando sei stata esposta all’italiano?
Sono cresciuta in una casa in cui convivevano i nonni udenti e i miei genitori sordi segnanti, pertanto ho avuto la fortuna di essere esposta ad entrambe le lingue da subito. Da un punto di vista linguistico però ho sempre faticato di più con le parole che non con i movimenti o le immagini, nel senso che le parole non mi venivano in mente mentre avevo una predisposizione alla visualizzazione del pensiero.

3) A scuola ti sei mai sentita diversa dagli altri?
Sì, purtroppo! Mi sono sempre sentita inferiore agli altri e quindi mi sono impegnata moltissimo per colmare un gap che in realtà sentivo solo io. Sono nata negli anni ‘70, all’alba delle leggi sull’integrazione scolastica e sociale. Ho vissuto sulla mia pelle la disabilità dei miei genitori, ero l’unica nella mia condizione e qualche volta sono stata presa in giro. Per strada era meglio non segnare, il contesto sociale e culturale del tempo ha contribuito ad alimentare la vergogna di avere due genitori sordi.

4) Da un punto di vista linguistico e culturale ti senti più udente o sorda?
Difficile rispondere. Almeno spero di averlo fatto con il mio libro. È evidente che vivo, parlo e penso da udente, ritengo però che il mio essere sorda abbia contribuito alla formazione soprattutto della mia intelligenza emotiva. Oggi, a fronte di un percorso di ristrutturazione del mio vissuto, posso dire che spesso mi trovo a segnare anche quando sono da sola ad ascoltare la musica. Ho imparato a isolarmi dall’esterno e a ricercare il silenzio come parte importante di me. Dei sordi ho l’ipersensibilità alla luce e agli aspetti visuo-spaziali: è più probabile che mi distragga un movimento percettibile nel mio spazio visivo piuttosto che un rumore.

5) Cosa apprezzi delle due culture e cosa invece ti piace meno?
Dei sordi apprezzo il senso di appartenenza a una comunità. Non esiste l’individualismo tra i sordi e questo è un punto di forza. Mi piace meno quando sono diffidenti verso gli altri, soprattutto udenti, cosa che comunque tento di giustificare conoscendo la storia e la cultura sorda. Degli udenti non mi piace la chiusura che ancora c’è verso l’altro, soprattutto se “diverso”. Anche se sulla carta siamo uno dei paesi più avanzati nell’ambito dell’integrazione credo che ci sia ancora molto da fare.

6) Hai incontrato delle difficoltà dovute al fatto di essere figlia di sordi? Se sì, quali?
Beh! Soprattutto linguistiche. A casa c’erano due sordi con scarse competenze lessicali e due nonni adorabili che parlavano più il dialetto dell’italiano. Mi sono dovuta dare un gran daffare per imparare la lingua italiana. La resilienza l’ho imparata così, credo.

7) Sulla base della tua esperienza quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)?
Il contesto bilingue è sempre fonte di arricchimento per un bambino. Credo che nel mio caso sia stato uno dei fattori determinanti sia del mio sviluppo cognitivo che emotivo. Essere esposti a due lingue sin da piccoli favorisce l’elasticità cerebrale, se una di queste poi è una lingua visiva come la LIS, questo stimola lo sviluppo di abilità visuo-spaziali e di memoria. Sono cresciuta con doppie stimolazioni provenienti da due codici linguistici e questo ritengo sia stato un bene.

8) C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi?
Nel mio libro “Peccato, io non sono sorda!” (Erga Edizioni) di episodi ce ne sono molti. Vi dico solo come è nato il titolo: quando ero piccola amavo cantare e mia madre ogni volta mi diceva “Peccato, io sorda!”. Non è stato facile sopportare il senso di colpa di essere nata udente ma credo che la mia storia e il titolo del libro alla fine dimostri che in qualche modo ci sono riuscita.

9) Perché hai scelto di diventare Assistente alla Comunicazione?
Anche questo racconto nel libro. Non è stata una scelta. Da neolaureata avevo deciso di occuparmi di altro. Poi al servizio pubblico dove lavoravo è arrivata una famiglia di sordi e da lì mi sono dovuta rimettere in gioco, sia emotivamente che professionalmente. È stato faticoso vincere le iniziali resistenze ma poi ho riscoperto il mio essere sorda.

10) Qual è il tuo motto?
Ne ho più di uno. Ad esempio: l’autenticità e la forza di una persona si misurano nella capacità di vivere appieno la sua fragilità e condividerla. Oppure: se la vita prende una rotta non prevista aggrappati al timone e tira fuori le palle!

di Michele Peretti
redazione@viverefermo.it

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