Appare difficile, di primo acchito, classificare per genere l’ultimo, e direi ben scritto, originale e fortunato romanzo di Francesca Bertuzzi, poiché è riduttivo definirlo semplicemente un giallo o un thriller, magari solo una storia spettacolare con sparatorie, fughe, tensione e adrenalina sparse.
Analogamente si potrebbe descriverlo come un mistery, o una storia al limite dell’attendibilità, il racconto di una sfida alla scienza da parte della scienza stessa, etichettandolo, perché no, come fantascienza pura.
In realtà il romanzo è invece assai più profondo e intimista, semplicemente una storia d’amore portata al limite del parossismo.
Ciò che appare assai evidente, tengo a rilevare, è che è un romanzo esclusivamente ideato, svolto e rivolto al femminile, una storia di donne scritto da una donna principalmente per le donne, ma non solo, è un libro al femminile nella sua accezione più alta del termine, e perciò solo per questo un romanzo completo, compiuto, straordinariamente intenso, semplice e mirabile insieme, apprezzabile finanche dagli uomini, ma da questi dubito interamente compreso nella sua essenza.
Si badi bene, mi ripeto, non è un romanzo femminino, femmineo, donnesco, non un racconto muliebre o un’elegia del gentil sesso.
Non è un romanzo da donna, o delle donne, o dalla parte delle donne.
No, è solo uno scritto al femminile. Il che significa tanto di più.
Solo una donna può capire completamente l’aurea che permea la vicenda narrata, solo una donna, non tutte ma la stragrande maggioranza, quelle cioè che hanno almeno una volta nella vita profondamente amato un loro simile.
Perché, a ragione o a torto, per privilegio unico o per sventura più nera, solo una donna che ha amato, come amore pretende, lei sola può dire, dall’alba dei tempi, con tutta evidenza, dove arriva la ragione e dove il sentimento, dove è la gioia e dove il dolore, lei sola comprende l’essenza dell’esistenza, nel bene e nel male.
Un uomo no, sono altro, sono diversi: gli uomini si legano, le donne si innamorano; gli uomini calcolano, le donne si donano; gli uomini adorano idoli, le donne pregano un dio d’amore, che non è necessariamente maschile.
E gli uomini abusano, in tutti i sensi, solo se ne hanno occasione; le donne si concedono intimamente, compenetrandosi: tutta un’altra storia.
Francesca Bertuzzi in “Fammi male” fornisce un’ottima prova di sé, questo è forse il romanzo della sua piena maturità artistica di scrittrice, dopo le ottime prove passate de “Il Carnefice”, in cui parlava di argomenti all’epoca assai scabrosi e delicati come la pedofilia; o anche come “Il sacrilegio” altrimenti conosciuto come “La paura” in cui si cimenta ancora in un argomento tabù come l’incesto, e infine nel “La Belva” in cui si rivela attenta osservatrice e abile descrittrice dell’intimo sensibile e tormentato insieme delle ragazze adolescenti.
Questa volta la Bertuzzi fa quello che qualunque scrittore deve saper fare: inventare una buona storia e raccontarla per bene. E tutto questo lo fa alla grande.
Quello in più, il valore aggiunto, lo dà proprio il carattere al femminile del romanzo.
Francesca Bertuzzi, con semplicità e amore per la sua arte, fa quello che le riesce meglio, parla di se stessa, riversa nella storia quanto di più femminile c’è nel suo animo.
Narra una storia tenera e violenta, semplice e contorta, una storia principalmente d’amore e sentimento, e pure ragionevole e razionale insieme, la trama e il modo come scorre non è altro che un excursus nel cuore e nella mente dell’altra metà del cielo, intesa nel senso più nobile del termine.
La storia di una fuga di una giovane donna, volta a cercare la verità sulla tragica scomparsa della sorella, avvenuta anni prima durante una vacanza estiva sul litorale di Vasto.
Una storia all’apparenza semplice ma che tanto semplice non è, trattandosi di un vero viaggio nella memoria, la riscoperta di un altro sé in un altro tempo e in un altro luogo, un autentico ricostruire il supporto sinaptico di una memoria scomparsa e che a tratti rinviene, velata dalla nebbia di un limbo, eppure concreta e in piena luce, una storia tremenda e tenerissima insieme.
L’input iniziale dell’intera vicenda è un senso assai distorto del concetto di amore senza fine, quello ad esempio che può essere l’amore materno: un amore che ti porta a dispiacerti se arrivano cattive notizie per un’amatissima figlia: “…Non accadde che qualcuno le attraversasse la carne del torace con lunghe e fredde unghie affilate…graffiandola con sadica perizia. Ma a lei parve di sì.”
Lo vedete un uomo descrivere parimenti il dolore di una madre?
Una storia di donne, di personaggi donne: e sono donne bellissime, magre e sensuali, giovani e adulte, femmine conturbanti e bambine con il lecca lecca, in short di jeans e ginocchia sbucciate, in canotta o seminude, in abiti eleganti o in semplice divise da infermiere, decise e impaurite, dure e sensibilissime, sono donne splendide le protagoniste Ana, Anabelle, Arancia, sono uguali, tra loro simili, cloni e copie tra di loro, e ancora ci sono come detto madri che pregano, madri che amano all’inverosimile, e gli uomini sono semplicemente padri, padri padroni, uomini di possesso e di prepotenza, uomini egoisti, presuntuosi, aridi, killer e tutti potenziali stupratori, spesso per il solo gusto di esserlo, di prendere, di affermare il proprio io mediocre, di umiliare.
Viene da pensare allora che l’amore lesbico, salvifico e vissuto come una bolla di calore umano che pervade corpo e anima, nasca proprio dal fatto che gli uomini, spesso, non sanno andare oltre, non sanno fare veramente l’amore, è insito proprio nel loro cromosoma di due frammenti diversi X e Y, così anomali rispetto a quello femminile, una coppia giusta, razionale, doppia, una coppia uguale Y e Y, proprio come deve essere. Occorre pari intensità tra corpo e anima, Y e Y; se le intensità sono diverse, X e Y, allora è puro squilibrio.
Gli uomini si accoppiano, si legano a una femmina, non a una persona, godono e, e non sempre, fanno godere, ma non sanno fare l’amore.
Le donne invece s’innamorano di una persona, non dei suoi genitali.
E perciò, davanti alla bruttura insita nell’animale maschio, l’amore fra due donne non è raro che si accompagni alla richiesta di una delle due partner di un sussurrato “fammi male” di cui al titolo, un paradosso dolcissimo, giacché una carezza femminile non sarà mai brutale quanto una ruvida mano maschile. Gli uomini non ci fanno una bella figura in questo libro, ma non per una scelta di fantasia, non per un senso di assurda rivalsa del lato femminile dell’universo su quello maschile, ma perché è quanto normalmente avviene nella realtà dell’universo maschio, se solo li si scruta a fondo nel loro agire e nei loro intendimenti. Magari non è per loro colpa, ma è nel loro estro.
Perciò le donne sono umane, e gli uomini semplicemente assurdi; e per esempio, la scena in un laboratorio medico con animali in veste di cavie, non è raro che faccia rinvenire dalla memoria, almeno per coloro che hanno avuto la fortuna di vederlo, la battuta del famosissimo film cult: “Il pianeta delle scimmie” dove appunto un primate raccomanda ai suoi simili:
“Guardati dalla bestia-uomo, poiché egli è l’artiglio del demonio.”.
Un bel libro, in definitiva: nulla di trascendentale, non un capolavoro, certamente, ma una buona lettura, originale, diversa, e lo affermiamo ancora, una storia al femminile. Un’altra riprova?
C’è un epitaffio dolcissimo scolpito sulla lapide di un undicenne:
“Prima, delle date: 13-07-1982/11-11-1993. Segue un nome: MASSIMO. L’incisione è un epitaffio: NON AVREI POTUTO AMARTI PIU’ DI COSI’. CON TUTTO IL CUORE, PAPA”.
Dite che chiunque poteva scrivere qualcosa di altrettanto delicato sulla tomba di un bambino, magari anche più commovente, non necessariamente una donna?
Forse.
Ma è la tomba di un cane.
E l’epitaffio dolcissimo è contenuto in un libro al femminile.
Scritto con femminile tenerezza da Francesca Bertuzzi