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Il “paziente 1″, «Milano non si ferma», e poi gli allarmi, le zone rosse e le sottovalutazioni che portarono a mesi di sofferenze e morti
Alle 21:20 del 20 febbraio 2020 fu segnalato il primo caso di infezione di coronavirus in Italia. Il cosiddetto “paziente uno” era Mattia Maestri, un manager all’epoca 38enne ricoverato da due giorni all’ospedale di Codogno, un paese di circa 15mila abitanti in provincia di Lodi. Era arrivato al pronto soccorso nel pomeriggio del 18 febbraio con tosse e febbre alta, e in poche ore le sue condizioni erano peggiorate. I medici lo avevano spostato in rianimazione a causa di una grave insufficienza respiratoria e solo nella serata del 20 febbraio, grazie all’intuizione di un’anestesista, Maestri venne testato per accertare se avesse il Covid.
Fu l’inizio della fase più acuta della pandemia, che portò al caos, alle zone rosse e al primo lockdown, la fase in cui emersero soprattutto incertezze, contraddizioni e sottovalutazioni a cui seguirono sofferenze e migliaia di morti.
Prima di quel 20 febbraio c’era ancora l’illusione che fosse possibile identificare tutte le persone infette provenienti dalla Cina, dove erano stati rilevati i primi contagi alla fine del 2019. Il 22 gennaio 2020, un mese prima del caso scoperto a Codogno, il ministero della Salute aveva ordinato alle aziende sanitarie locali di adottare protocolli contro i contagi, e una settimana dopo il governo aveva proclamato lo stato di emergenza sanitaria che imponeva di testare tutti i casi di polmonite sospetta. Passarono solo cinque giorni e quelle regole furono attenuate: non si dovevano più testare tutti i casi di polmonite, ma solo chi aveva malattie respiratorie gravi e nei 14 giorni precedenti aveva viaggiato nelle aree a rischio della Cina. Per questo motivo il test fatto a Maestri, non richiesto, fu un’intuizione.
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L’ospedale di Codogno il 21 febbraio 2020 (ANSA/ANDREA FASANI)
Quando il 31 gennaio due turisti cinesi atterrati all’aeroporto di Malpensa risultarono positivi, il ministero e il governo di Giuseppe Conte si resero conto che i protocolli e il blocco dei voli in arrivo e in partenza dalla Cina introdotto solo il giorno prima erano stati superati. Nel frattempo le aziende produttrici di mascherine stavano già ricevendo ordini per milioni di pezzi. All’epoca le mascherine erano lo strumento più efficace nella gestione della pandemia, ma in meno di due settimane fu molto complicato trovarle e comprarle, non solo in Italia.
In quei giorni solo in Veneto furono seguite misure eccezionali per fronteggiare l’epidemia. Su richiesta del microbiologo dell’università di Padova Andrea Crisanti, la Regione guidata da Luca Zaia si era mossa per potenziare la capacità di tracciare il contagio, avviando la produzione autonoma dei reagenti chimici necessari per elaborare centinaia di migliaia di tamponi. L’obiettivo era aumentare il più possibile la capacità di analisi di test in vista di una possibile epidemia.
Venerdì 21 febbraio furono confermati sedici nuovi casi di persone che avevano il coronavirus: quattordici in Lombardia e due in Veneto. I contagiati in Veneto erano due anziani di 78 e 67 anni di Vo’, in provincia di Padova. Il 78enne – si chiamava Adriano Trevisan – morì il giorno stesso: fu il primo decesso ufficiale causato dal Covid. Poche ore dopo fu chiuso l’ospedale di Codogno.
Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio il governo decise di istituire un’area di quarantena totale intorno a dieci comuni del Lodigiano e intorno al comune di Vo’. In queste aree tutte le attività economiche vennero sospese e alla popolazione venne impedito di uscire, nella speranza di limitare la diffusione del virus e di impedirgli di raggiungere altre aree. Erano le prime “zone rosse”.
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Una farmacia di Codogno il 22 febbraio 2020 (AP Photo/Luca Bruno)
Quando un caso analogo a quello di Codogno venne scoperto in provincia di Bergamo, la Regione Lombardia e il governo nazionale decisero di agire diversamente. Nel pomeriggio di domenica 23 febbraio furono individuate due persone positive ricoverate da alcuni giorni all’ospedale di Alzano Lombardo, in Val Seriana, a pochi chilometri da Bergamo. Già da metà gennaio diversi medici della valle avevano notato un aumento delle polmoniti gravi rispetto agli anni precedenti, ma all’azienda sanitaria di Bergamo non erano scattate allerte particolari.
Come era avvenuto a Codogno due giorni prima, la direzione dell’ospedale di Alzano Lombardo ordinò la chiusura del pronto soccorso e l’isolamento dell’intera struttura. Due ore dopo, però, la Regione impose di riaprire tutto. Prima della riapertura i reparti furono sanificati in fretta e con mezzi inadeguati, poco più di una normale pulizia.
Nonostante l’enorme rischio di un contagio in ospedale – un posto da cui passano medici e pazienti fragili – nessuna “zona rossa” venne imposta nel comune, e la Regione Lombardia disse che non erano allo studio ulteriori misure di quarantena. La mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo, insieme alla mancata applicazione della “zona rossa” in Val Seriana, diventarono presto un tema centrale, e tra i più discussi, della cosiddetta prima ondata. Ci furono polemiche, richieste di dimissioni e inchieste della procura, poi concluse con archiviazioni.
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Un soldato in un ospedale da campo allestito per accogliere i pazienti nella prima fase dell’epidemia (AP Photo/Antonio Calanni)
Gli ospedali lombardi iniziavano ad accogliere molte persone con gravi problemi respiratori, ma il clima in Lombardia e nel paese era cambiato. Dopo le preoccupazioni dovute ai primi contagi si diffuse un sentimento opposto, che tendeva a minimizzare la pericolosità della pandemia e a incoraggiare la fiducia della popolazione.
A Milano il sindaco Beppe Sala pubblicò sui social network un video – realizzato da un gruppo di ristoratori locali – in cui si annunciava che “Milano non si ferma”. Il segretario del PD Nicola Zingaretti, che poi sarebbe stato a sua volta contagiato, partecipò a un aperitivo sui Navigli ampiamente pubblicizzato. Anche il segretario della Lega Matteo Salvini incoraggiò i lombardi a non fermarsi e il governo ad «aprire, spalancare» tutto.
Lo stesso sentimento fu espresso dall’allora sindaco di Bergamo Giorgio Gori, insieme a quelli dei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, sostenuti dalle associazioni degli imprenditori locali. Il 3 marzo queste associazioni si incontrarono con il presidente della Regione Attilio Fontana per esprimergli la loro preoccupazione sul rischio che avrebbe comportato la creazione di una nuova “zona rossa” sull’economia della provincia.
La decisione di imporre una “zona rossa” nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro venne discussa in un rimpallo tra Regione e governo durato due settimane. Nella notte tra il 7 e l’8 marzo polizia e carabinieri inviati dal ministero dell’Interno erano pronti a bloccare l’accesso ai due comuni, ma alla fine l’opinione prevalente fu che il contagio fosse ormai così esteso che bloccare quei due comuni non avesse più senso. Al posto della zona rossa si scelse di mettere in atto una più blanda “zona arancione” in tutta la regione, un’area di quarantena più estesa ma con regole molto meno severe.
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Manifesti funebri ad Alzano Lombardo (AP Photo/Luca Bruno)
Il contagio era diventato ormai impossibile da eliminare: l’unica soluzione era cercare di contenerlo, limitando al massimo le interazioni tra le persone e cercando di diminuire la pressione sul sistema sanitario, che nel resto di marzo sarebbe diventata altissima. «Tutti noi all’inizio abbiamo pensato che potesse essere un allarme transitorio», disse il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, in un videomessaggio dell’8 marzo in cui riconosceva il collasso delle strutture sanitarie della città: «Dobbiamo pensare che la nostra vita sia cambiata da oggi, almeno per qualche settimana».
Quando l’8 marzo l’intera Lombardia venne messa in isolamento, la regione aveva poco più di 700 posti di terapia intensiva, di cui quasi 500 già occupati da malati di Covid. All’ospedale di Bergamo, il Papa Giovanni XXIII, così come negli ospedali di Lodi, Cremona, Crema, San Donato e Brescia, l’arrivo di pazienti sospetti positivi o risultati positivi al coronavirus fu improvviso e costrinse medici e mediche a riorganizzare il lavoro.
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Un medico si riposa dopo un turno (AP Photo/Domenico Stinellis)
Interi reparti – interi piani in alcuni casi – furono convertiti a spazi destinati ai pazienti positivi, dopo avere trasferito altrove gli altri malati. I posti di terapia intensiva, quelli riservati ai pazienti più gravi, furono raddoppiati, triplicati, quadruplicati, o più. Medici di altre specialità – dermatologi, urologi, cardiologi, per dirne alcuni – vennero spostati a seguire i pazienti meno gravi, quelli non intubati, dopo avere seguito corsi di formazione organizzati in fretta e furia dalle direzioni sanitarie.
Nella serata di lunedì 9 marzo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciò il primo lockdown nazionale. Fu imposta la chiusura di scuole, università, negozi, bar e ristoranti. Furono vietati gli spostamenti non necessari e rimasero attivi solo i servizi di pubblica utilità. Molte persone si affollarono sui treni in partenza dalle stazioni e fuori dai supermercati aperti fino a tardi per fare provviste. Le strade delle città si svuotarono, mentre negli ospedali venivano ricoverate sempre più persone.
Nei giorni successivi soprattutto in Lombardia fu impossibile testare tutte le persone che accusavano sintomi legati alla malattia, perché non c’erano tamponi. Diversi sindaci, in particolare nella provincia di Bergamo, iniziarono a registrare un numero di morti insolito e molto superiore ai decessi ufficiali dovuti al coronavirus.
Solo nei mesi successivi l’ISTAT, che tiene il conto dei decessi per qualsiasi causa quasi in tempo reale, iniziò a rilevare gli eccessi di mortalità rispetto agli anni precedenti, un numero che rivela non soltanto i morti a causa del Covid a cui non si è potuto fare il tampone, ma anche coloro che sono morti per il sovraccarico del sistema sanitario. Pazienti che non erano stati ricoverati per via degli ospedali pieni, altri che per paura non si erano presentati al pronto soccorso, altri ancora che non avevano ricevuto in tempo il soccorso di un’ambulanza.
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Bare in attesa della cremazione, a Bergamo (Marco Di Lauro/Getty Images)
A Nembro e Alzano Lombardo la mortalità aumentò di oltre il 600 per cento rispetto agli anni precedenti. Nella prima fase dell’epidemia Bergamo fu la provincia con l’eccesso di mortalità più elevato in tutto il mondo.
Nella serata di mercoledì 18 marzo i mezzi dell’esercito trasportarono le bare di alcune delle persone morte di Covid dal cimitero monumentale ai forni crematori di altre città. Le aziende di pompe funebri non riuscivano più a gestire la situazione e le attese per le cremazioni – pratica scelta dalla maggioranza delle famiglie delle persone morte – avevano ormai superato la settimana.
Tra marzo e aprile del 2020 in provincia di Bergamo morirono circa seimila persone in più rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. I dati ufficiali dicono che i morti furono solo 2.971. In tutta l’Italia morirono poco più di 48mila persone in più rispetto alla media degli anni precedenti, mentre le persone morte ufficialmente a causa del Covid furono 29.210.