Ayrton Senna, 30 anni fa la morte del più grande

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Ayrton Senna nel marzo 1986 all'Autodromo internazionale Nelson Piquet Jacarepagua vicino a Rio de Janeiro. (Mike King/Allsport/Getty Images)

«Era una bella e calda giornata di primavera. Ricordo il viavai della gente, il rombo dei motori, le corse di classi minori prima di pranzo. Per la gara trovammo posto attaccati alla rete, subito prima della Villeneuve, in fondo al rettilineo dopo il Tamburello. Mi sembra di sentirlo ancora adesso – sulle braccia, negli orecchi, nello stomaco – il frastuono delle macchine al giro di ricognizione, l’eccitazione di vedere per la prima volta la Ferrari dal vivo. Poi quei cinque giri dietro alla safety car per il tamponamento di Lamy a JJ Lehto. Infine il rombo più acuto, la voce di Francesco che dice “ecco, sono ripartiti”, il grido dei motori che si avvicina. E quel proiettile, laggiù, che si schianta contro il muro, la scia della Ferrari di Berger che frulla l’alettone in aria come un coriandolo, il casco giallo reclinato, i soccorsi, l’elicottero in pista. E il silenzio. L’irreale silenzio. Un intero autodromo ammutolito»

La gioventù, almeno la mia, ha un precisissimo odore, e ha iniziato a evaporare alle 14 e 17 del primo maggio 1994, quando a Imola la Williams di Ayrton Senna si è schiantata contro il muro della curva del Tamburello.

Avevo compiuto sedici anni da pochi giorni. Un anno e mezzo prima, quando mia sorella se ne era andata in collegio, i miei mi avevano informato che avrei potuto usare il suo motorino: un Sì rosso fuoco. Avevo provato a dire che non volevo il Sì di mia sorella, volevo uno scooter. Non ne avevo cavato nulla.

Allora però lo voglio truccare, avevo azzardato.

La mamma aveva alzato le sopracciglia, forse sorpresa da questa mia nuova sfacciataggine, e aveva passato lo sguardo sul babbo. Le faccende di motori erano dominio suo. Lui si era probabilmente trovato in difficoltà. La sua parte più responsabile voleva senz’altro ridermi in faccia. Come poter però giustificare i diplomi di corsi di guida appesi nel suo studio, le foto accanto a macchine sportive, le domeniche a guardare insieme i gran premi? Aveva finito per sorridere, dirmi che ci avrebbe pensato.

Ne avevano parlato con un amico assicuratore, aveva detto che in teoria i motorini non si potevano truccare, ma che non se ne accorgeva nessuno, e che era meglio però non aumentare la cilindrata.

Ma te la cilindrata non la tocchi, giusto?, aveva domandato mamma.

Al Nido delle Vespe avevo comprato un settantacinque da competizione alleggerito della Pinasco, con doppia carburazione. Proprio così: doppia carburazione. Avevo impiegato diverse ore, con un mio amico, per tentare di montare il motore e incastrare quel secondo carburatore nello chassis, e avevamo poi finito per doverlo comunque portare da un meccanico. Una volta però calibrato, i due carburatori avevano preso a pompare come idrovore, e il Sì, a trenta all’ora dietro agli autobus, se non stavi attento si alzava di gas. Della Pinasco avevo montato anche le gomme, più larghe e più morbide: nel piazzale di Porta Romana, con l’asfalto nuovo, strusciavo quasi il telaio in terra.

La vera magia del mio Sì rosso però non era il motore, o le gomme. Per non attirare troppo l’attenzione, e attenuare il rumore che già pareva di un 125, avevo deciso di svuotare una marmitta originale. Eccolo, il colpo di genio che non avrei mai più saputo replicare: dall’esterno, il mio Sì pareva un motorino come qualunque altro. Il babbo oltretutto mi obbligava a usare un casco integrale, che sul mio colletto e le mie strette spalle mi faceva sembrare una formica. Al semaforo mi trovavo spesso accanto uno di quei nuovi scooter fiammanti: i ragazzini alla guida buttavano un occhio quasi sorridendo, davano due colpetti di gas. Potevo quasi sentirla, la voce dentro di loro che mi davano dello sfigato. Poi partiva il verde, e si sentivano ruggire e sfrecciare accanto questo missile rosso. Al semaforo successivo, mentre io già aspettavo il nuovo verde da un pezzo, arrancavano per venirmi vicini: «Oh, ma che c’hai sotto?» domandavano ogni volta. E io ogni volta non riuscivo a trattenermi: «Parecchio», e risfrecciavo via. Niente mi avrebbe mai più dato una scarica tanto affilata di soddisfazione.

Eccolo, l’odore della mia gioventù: la benzina e l’olio bruciato dei motori a due tempi.

Anche Francesco, quando mi rese il Sì dopo averlo provato per un paio di giorni, mi disse ridendo che ero pazzo, che andava come un cannone. Francesco era il proprietario trentenne di un locale aperto da poco dietro piazza Santa Croce, dove io e un mio amico avevamo preso a passare parecchio tempo. Devo ammetterlo: mamma mi sorprese, quando acconsentì a lasciarmi portare a Imola da Francesco, in moto, per vedere il gran premio di Formula 1.

Era una bella e calda giornata di primavera. Ricordo il viavai della gente, il rombo dei motori, le corse di classi minori prima di pranzo. Per la gara trovammo posto attaccati alla rete, subito prima della Villeneuve, in fondo al rettilineo dopo il Tamburello. Mi sembra di sentirlo ancora adesso – sulle braccia, negli orecchi, nello stomaco – il frastuono delle macchine al giro di ricognizione, l’eccitazione di vedere per la prima volta la Ferrari dal vivo. Poi quei cinque giri dietro alla safety car per il tamponamento di Lamy a JJ Lehto: le gomme della safety car che stridevano, le Formula 1 che invece parevano a passeggio, le serpentine e le inchiodate per tenere gomme e freni caldi. Infine il rombo più acuto, la voce di Francesco che dice “ecco, sono ripartiti”, il grido dei motori che si avvicina. E quel proiettile, laggiù, che si schianta contro il muro, la scia della Ferrari di Berger che frulla l’alettone in aria come un coriandolo, il casco giallo reclinato, i soccorsi, l’elicottero in pista.

E il silenzio. L’irreale silenzio. Un intero autodromo ammutolito.

Nessuno aveva mai assistito a un fine settimana di corse come quello, e nessuno, per fortuna, vi avrebbe più assistito dopo. Il venerdì una Jordan aveva letteralmente preso il volo alla variante bassa, spedendo Rubens Barrichello in ospedale, intubato; e il sabato Roland Ratzenberger si era schiantato contro il muro della Villeneuve, a più di trecento all’ora. Era morto sull’elicottero, per una frattura alla base del cranio. Era un giovane connazionale di Berger, a sua volta il miglior amico di Senna nel circuito della Formula 1. Cinque anni prima lo stesso Berger era andato a schiantarsi contro il muretto del Tamburello, mandando a fuoco la sua Ferrari e ricordando a tutti per qualche terrorizzante minuto l’incidente di Lauda al Nürburgring, nel 1976. Berger per fortuna ne era venuto fuori con un paio di costole rotte e qualche bruciatura alle mani. Pare che un giorno Berger e Senna avessero camminato proprio fino a quel muro, si fossero domandati come fare a renderlo meno pericoloso, forse eliminarlo. Quando però si erano sporti oltre avevano visto là sotto il torrente, e avevano capito che non c’era niente da fare.

Per rendere le corse più competitive, quell’anno la direzione della Formula 1 aveva imposto alle scuderie di togliere gran parte dell’elettronica sviluppata nelle ultime stagioni. Le nuove regole avevano reso la Williams e molte altre auto difficili da guidare. La Williams, in più, stava stretta ad Ayrton. Nel vero senso della parola: avevano ridotto l’abitacolo, costringendo Senna a una posizione scomoda, e impedendogli di usare il volante più grande a cui era abituato.

C’è la ripresa di una conversazione tra Senna e i meccanici che mi ha sempre fatto venire i brividi. Senna cerca di spiegare come la macchina abbia dei problemi di bilanciamento: un giro sembra avere un assetto, quello dopo un altro. Ho parlato con un po’ di piloti, nel corso degli anni, ci ho guidato insieme, ho fatto un corso sulle monoposto: capisci pian piano come guidare non sia niente più che una questione di distribuzione dei pesi. Giri forte se la macchina è sempre ben appoggiata sulle quattro ruote: se, in sostanza, sei centrato. Un po’ come la vita, in fin dei conti. Se il peso è troppo dietro, le ruote anteriori non aggrappano; se il peso è troppo avanti finisci in testacoda. Cerco di immaginare cosa significhi avere sotto il sedere una bestia di meno di seicento chili con la forza di 830 cavalli imbizzarriti che cambia di continuo assetto… Be’, non ci riesco. A Imola, con quella bestia, Ayrton riuscì comunque a fare il miglior tempo. Senna, al volante, non era un pilota, era un dio: piegava le leggi della fisica.

Dopo averla sognata per due anni, Ayrton detestava quella Williams. Quando la Honda aveva deciso di lasciare la Formula 1, la McLaren si era trovata improvvisamente ad arrancare dietro le Williams, che si attaccavano alle curve come piovre, incollate a terra dalle sospensioni elettroniche. Era con loro che Senna avrebbe voluto correre, ma si era dovuto mettere in fila. Alain Prost, dopo un anno senza contratto, aveva messo una sola condizione a Frank Williams per tornare a correre: mai più in squadra con Senna.

La crepa aveva preso ad aprirsi a Montecarlo, nel 1984, sotto una pioggia scrosciante. Prost era comodamente in testa. Senna era al suo primo anno in Formula 1, a bordo di una scarsa e brutta Toleman, con un doppio alettone posteriore. Senna, sotto il diluvio, aveva superato uno dopo l’altro tutti gli avversari, e infine anche Prost: solo dopo però che questo aveva alzato il braccio e fatto in modo di fermare la gara, tenendosi la vittoria. Alla premiazione, mentre Prost scherzava con il principe Ranieri e Carolina, Senna era stato costretto ad andarsene via in silenzio, come un imbucato.

Quattro anni dopo, sempre a Montecarlo, Senna e Prost erano ormai entrambi alla McLaren, sulla leggendaria MP4. Senna avrebbe in seguito ammesso che non si era mai avvicinato tanto alla perfezione: non si era più sentito in un umano stato di coscienza, la pista era sembrata come un dritto tunnel, la sua macchina semplicemente sfiorare da una parte all’altra i guard rail. Aveva preso quasi un minuto di vantaggio su Prost, dai box gli avevano detto di rallentare, lui si era rilassato, ed era andato a sbattere. «Non voleva battermi», avrebbe poi detto Prost, «voleva umiliarmi». Ho sempre sorriso del fatto che un campione orgoglioso come Prost ammettesse tanto candidamente che qualcuno potesse umiliarlo.

Quello stesso anno, a Suzuka, l’ultima gara del campionato, Senna era partito male, si era trovato sedicesimo, ma era ugualmente riuscito a rimontare tutti e vincere il mondiale. E fu sempre a Suzuka che, nei due anni successivi, la crepa finì per spalancarsi irrimediabilmente. Nel 1989 Prost si prese il mondiale andando prima addosso a Senna, poi correndo dal comitato di gara e da Jean-Marie Balestre, il presidente della FIA, per fare in modo che venisse annullata la vittoria di Ayrton, tornato in pista, fermato ai box per riparare l’alettone e rimontato Nannini con uno dei suoi miracoli. Un anno dopo, con Prost ormai alla Ferrari, Senna si era ripreso il mondiale andando questa volta lui addosso all’altro, per giunta di nuovo alla Casio chicane. I due, insomma, si odiavano: Senna odiava Prost perché sapeva vincere meglio di lui fuori dalla pista, Prost odiava Senna perché sapeva vincere meglio dentro.

Ed eccola, in coda a quest’odio, la prima stranezza di quel primo maggio del ’94, a Imola. Prost ormai si era ritirato, lasciando finalmente il posto a Senna alla Williams e commentando le gare in televisione. Senna, durante il warm up, sapendo che il suo audio era collegato con la cabina di commento, chiuse così: «E un saluto al mio grande amico Alain Prost. Mi manchi».

Oltre a salutare Prost, Senna fece un’altra cosa, quel giorno, che non aveva mai fatto: prima della gara si tolse il casco e lo posò sul cupolino. Appoggiò la testa indietro, sospirò; scosse anche la testa, a un certo punto, si grattò la fronte. Pare che il giorno prima, dopo l’incidente di Ratzenberger, avesse parlato con Sid Watkins, il medico della Formula 1, con cui era diventato molto amico. «Smetti», gli aveva detto Sid vedendolo asciugarsi una lacrima. «Smetto anche io e andiamo insieme a pescare». «Non posso», gli aveva risposto Senna. O non ci riesco, dipende da come vogliamo tradurlo.

Senna credeva in Dio. Prost, quando ancora si bisticciavano, sosteneva a presa di giro che era per questo che Senna si prendeva tutti quei rischi: perché non aveva paura di morire. La sorella racconta che la mattina di quel primo maggio, appena sveglio, Senna prese in mano la Bibbia, pregò che Dio gli parlasse e l’aprì a caso: lesse un passo in cui diceva che avrebbe ricevuto il premio più grande, che avrebbe ricevuto Dio stesso.

Ci sono voluti anni a stabilire con certezza cosa fosse accaduto alla Williams di Ayrton. Si è parlato di un problema creato ad arte, addirittura di suicidio. La realtà è che se non fosse stato per un braccetto della sospensione, sparato come un proiettile sul casco di Senna, lui sarebbe uscito dalla vettura con le sue gambe: non aveva addosso manco un livido. A tradirlo fu quel maledetto abitacolo: per renderlo più comodo i meccanici avevano curvato il piantone dello sterzo, e la saldatura aveva ceduto. Arrivato al Tamburello, Senna provò a girare, e a frenare, passò dagli oltre trecento chilometri orari ai duecento. Ma non bastò.

Fu dichiarato morto quattro ore dopo l’incidente. Io ero ormai di nuovo a casa, davanti alla tivù. Quando diedero la notizia schizzai fuori dicendo che tornavo subito, saltai sul mio Sì truccato e mi buttai giù verso il centro. Quando arrivai davanti al locale di Francesco ci trovai appiccicato alla serranda un foglio, e la sua frettolosa grafia.
«Chiuso per lutto», diceva.

Ayrton Senna all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola, 1 febbraio 1990 (Pascal Rondeau/Getty Images)

C’è un famoso e splendido documentario, diretto da Asif Kapadia, intitolato semplicemente Senna. È costruito ad anello: finisce cioè con le parole con cui comincia. Sono parte di una delle ultime interviste di Ayrton. Gli chiedono quale sia il pilota contro cui ha provato più soddisfazione a correre. Lui ci pensa, guarda in basso, da una parte. Ognuno di noi immagina Prost, Mansell… chissà, forse un primo tributo a Schumacher, che sarebbe cresciuto con lo spettro della sua scomparsa.
«Fullerton», dice invece Senna.
Terry Fullerton era in effetti l’unico che era sempre riuscito a stargli davanti. Al mondiale kart, dal 1978 al 1980.
«Era puro guidare, puro correre», dice poi Senna. «Non c’era politica, giusto? Nemmeno soldi. Erano gare vere».
Anche lui, alla fin fine, sentiva la mancanza dell’odore dei due tempi.

 

Redazione IL POST
di Pietro Grossi

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