Nei prossimi due anni lo saranno ancora di più per via della possibilità concessa dal governo di lavorare fino a 72 anni, contro gli attuali 70
Alla fine di gennaio l’ISTAT, l’istituto nazionale di statistica, ha diffuso una nota con alcuni dati interessanti sull’andamento della formazione e delle assunzioni di nuovi medici e in generale sull’offerta del Servizio sanitario nazionale. È un tema di cui si discute da almeno due decenni, soprattutto per via dei problemi dovuti alla cattiva programmazione fatta dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni: in Italia mancano i medici e quelli in servizio sono molto anziani, anzi i più anziani d’Europa.
La formazione dei medici è piuttosto lunga. Il corso di laurea in medicina e chirurgia dura sei anni e dopo la laurea si è medici a tutti gli effetti, ma per esercitare la professione nel Servizio sanitario nazionale, quindi negli ospedali, bisogna specializzarsi. I medici che vogliono specializzarsi devono partecipare al concorso nazionale e, se lo vincono, frequentare il corso di specializzazione scelto, la cui durata varia dai tre ai cinque anni.
Il numero degli iscritti alla laurea in medicina e il numero di borse di studio messe a disposizione ogni anno determinano quindi la quantità di medici che in futuro lavoreranno negli ospedali. La programmazione, per essere ottimale, dovrebbe tenere conto di diversi indicatori: quanti professionisti sono prossimi alla pensione, quanti e quali servizi servono agli ospedali, quanti medici abbandonano gli studi, quanti decidono di lasciare le strutture pubbliche per passare al privato.
In Italia ci sono stati periodi, come all’inizio degli anni Settanta, in cui sono stati formati molti più medici di quanti ne servissero, e altri in cui le borse di studio e in generale le risorse economiche per la sanità sono state ridotte in modo eccessivo, come tra il 2010 e il 2020.
Negli ultimi decenni la programmazione approssimativa dei governi ha causato un problema chiamato “imbuto formativo”: la quantità di borse di studio per le specializzazioni non era sufficiente a garantire un posto alle persone appena laureate. Dopo la pandemia, invece, sono state messe a disposizione più borse di studio, e ora il problema è opposto rispetto al passato: i laureati in medicina, circa 13mila all’anno, sono cresciuti meno velocemente rispetto al numero di borse di studio disponibili. Oltre un quarto delle borse di studio per la specializzazione previste nel 2023 non è stato assegnato per mancanza di candidati.
Questo squilibrio si riflette sulla distribuzione demografica dei medici. Nel 2021, secondo i dati più recenti analizzati dall’ISTAT, il 55 per cento dei medici in Italia aveva almeno 55 anni contro il 44,5 per cento in Francia, il 44,1 per cento in Germania e il 32,7 per cento in Spagna.
Per quanto riguarda i medici specialisti assunti nel sistema sanitario pubblico e privato, nel 2022 l’età media era di 53,7 anni. Tra le specializzazioni più diffuse, la percentuale di specialisti con più di 54 anni supera il 50 per cento tra i cardiologi, i ginecologi, gli internisti, gli psichiatri e soprattutto i chirurghi (58,6 per cento).
In diverse altre specializzazioni c’è stato un notevole invecchiamento nei 10 anni tra il 2012 e il 2022: la quota di medici con più di 54 anni è passata dal 26 al 41,8 per cento nella medicina d’urgenza, dal 23,7 per cento al 32,8 per cento in oncologia, dal 32,8 per cento al 45,2 per cento in geriatria. «L’invecchiamento del personale medico rappresenta un elemento di criticità del sistema sanitario», si legge nella nota dell’ISTAT. «A questo si aggiunge la carenza di professionisti che operano in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale, che riguarda in particolare i medici di medicina generale. Tale quadro si innesta, inoltre, sulla previsione di un incremento futuro della domanda di cure dovuto al progressivo invecchiamento della popolazione».
Nonostante l’età media sia decisamente alta, la carenza di medici ha convinto il governo a consentire a chi lavora per il servizio sanitario nazionale di rimanere al lavoro fino a 72 anni contro i 70 previsti. La scelta di rimanere in servizio non è obbligatoria e ha una condizione essenziale: chi decide di rinviare la pensione non potrà mantenere o avere incarichi dirigenziali. Di fatto, il rinvio della pensione non vale per i primari. Il governo ha introdotto questa regola con un emendamento al decreto Milleproroghe per limitare le conseguenze dei circa 40mila pensionamenti previsti nei prossimi due anni.