Ribaltare il paradigma, passando dalla gabbia “dell’obbligo normativo” alla valorizzazione della persona, a partire dall’implementazione delle politiche attive che giocano un ruolo determinante. Solo così si può favorire l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità.
A più di vent’anni dall’entrata in vigore della legge n. 68/99 sul collocamento mirato, il bilancio sull’inserimento lavorativo dei disabili in Italia si presenta critico: su una popolazione di circa 3 milioni di persone con gravi limitazioni, solo il 32,5% (nella fascia d’età 15-64 anni) risulta occupata contro il 58,9% delle persone senza limitazioni; molto alta la percentuale (20%) di disabili in cerca di occupazione, sensibilmente superiore a quella della popolazione senza forme di disabilità (11,3%). Un quadro preoccupante quello che emerge dal report dell’Ufficio Studi dei Consulenti del Lavoro sugli ultimi dati Istat disponibili dal titolo “Il lavoro giusto al posto giusto. L’inclusione lavorativa delle persone con disabilità: criticità e prospettive”.
Nonostante negli ultimi anni si siano registrati dei miglioramenti (la quota di disabili in cerca o con un’occupazione è passata dal 40,2% del 2011 al 52,5% del 2021), frutto della combinazione di politiche nazionali e regionali da una parte e dell’impegno crescente delle aziende nel diffondere al loro interno una cultura maggiormente inclusiva, permangono ancora molte aree di criticità. La prima è rappresentata dal rischio di cronicizzazione dell’esclusione lavorativa, soprattutto per le persone con limitazioni gravi.
Ben il 62,2% dei disabili in cerca di un’occupazione ha tra i 45 e i 64 anni, mentre i giovani rappresentano solo il 37,8%: un dato in controtendenza rispetto a quanto avviene tra la popolazione che non ha limitazioni, dove i giovani rappresentano il 65,4% dei soggetti in cerca di lavoro. Per molti disabili l’esclusione lavorativa rischia di diventare una condizione permanente di vita, anche a causa dei bassi livelli di istruzione. Infatti, il 57,6% dei soggetti con gravi limitazioni possiede la licenza di scuola media, solo il 35% è diplomato e il 7,4% laureato. A ciò va aggiunta la crescente difficoltà di incontro tra una domanda e un’offerta di lavoro così specifiche.
Tra il 2011 e il 2021, a fronte di un aumento di quanti svolgono una funzione impiegatizia e intermedia (dal 28,6% al 35,7%), si evidenzia una contrazione di quanti occupano una posizione altamente qualificata (dirigenti, professionisti e quadri, la cui incidenza passa dal 17,8% al 14,5%). Aspetto che si riflette sulla stessa realizzazione professionale: la difficoltà di essere “collocati al posto giusto”, insieme ai limiti strutturali, organizzativi e relazionali di molti luoghi di lavoro, genera un diffuso senso di insoddisfazione tra i lavoratori disabili. Solo il 14,3% si dichiara molto soddisfatto del proprio lavoro, mentre il 30,6% lo è poco o per nulla (8,4%). Colpisce, in particolare, che tra i laureati la quota di insoddisfatti (31,2%) è quasi doppia rispetto a quanti non hanno limitazioni (16,3%).
Lo strumento del collocamento mirato, scelto dal legislatore per supportare la piena valorizzazione delle persone con disabilità, per come è strutturato oggi ha limiti evidenti e non è in grado da solo di rispondere alle istanze che provengono da questo mondo. “È necessario un cambio di approccio da parte delle imprese che ancora presentano resistenze”, ha commentato il Presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, Rosario De Luca. “Decontribuzioni e sgravi potrebbero rappresentare forme di incentivo ulteriori rispetto a quelle già esistenti per le aziende che superano la quota di riserva, oppure agevolazioni finalizzate all’adozione di strumenti di certificazione/rendicontazione sociale sulla promozione di pari opportunità aziendali”. Non solo. “Somministrazione e accomodamenti ragionevoli per l’adeguamento del posto di lavoro alle necessità dei lavoratori diversamente abili e di quelli la cui disabilità è intervenuta a seguito di un infortunio” sono altri strumenti utili ad accorciare le distanze con il mondo del lavoro.
Senza dimenticare “la piena efficacia normativa, attraverso un’attività di controllo e verifica che assicuri da parte delle aziende il rispetto dei vincoli cui sono tenute”, ha concluso.
Redazione L’Azione