C’è tutto un mondo intorno ai peperoncini

Una nuova varietà (“Pepper X”) ha ottenuto il record di piccantezza, attirando nuovo interesse verso le agguerrite competizioni tra gli appassionati

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Ed Currie regge un Carolina reaper a Fort Mill, in South Carolina, il 12 dicembre 2013 (AP Photo/Jeffrey Collins)

Il coltivatore ed esperto di peperoncini piccanti statunitense Ed Currie ha recentemente battuto il record per il peperoncino più piccante al mondo, che da dieci anni apparteneva a un’altra varietà di peperoncino da lui creata: la nuova varietà, chiamata “Pepper X”, è quasi tre volte più piccante. Currie, che è una delle poche persone ad averla assaggiata, ha detto che provoca una immediata e prolungata sensazione di bruciore, seguita da diverse ore di crampi addominali.

I peperoncini piccanti sono ormai da molti anni un argomento di interesse per migliaia di coltivatori e appassionati in tutto il mondo, ma soprattutto uno dei più conosciuti e raccontati alimenti da competizione tra persone che in un articolo del 2013 il New Yorker definì «gastromasochisti». Esiste una competizione tra coltivatori, impegnati a creare di continuo nuove varietà, più piccanti, più gustose o dalle forme particolari, e anche in Italia sono molte le persone, prevalentemente uomini, che si cimentano con la coltivazione domestica di varietà diverse. Esistono poi competizioni a vari livelli tra assaggiatori di peperoncino: da quella con l’amico o il parente che ne fa una questione di virilità alle decine di gare più o meno regolate nel mondo, in particolare negli Stati Uniti.

Filmare le reazioni delle persone che assaggiano peperoncini piccantissimi è anche un tipo di contenuto video di grande successo su YouTube e su altre piattaforme. Nel programma di questo genere più popolare in assoluto, Hot Ones, che esiste dal 2015, il conduttore statunitense Sean Evans intervista persone famose mentre mangia insieme a loro alette di pollo (o alternative vegane) condite con salse a base di peperoncini via via più piccanti man mano che l’intervista va avanti. Di solito gli effetti sono gestibili soltanto nella prima parte dell’intervista, prima che l’ospite cominci a sudare, lacrimare e chiedere cubetti di ghiaccio, bicchieri di latte o qualsiasi cosa utile a dare parziale sollievo.

Il latte è utilizzato in questo contesto come una sorta di “antidoto”, perché contiene una proteina, la caseina, in grado di alleviare gli effetti della molecola contenuta in quantità variabili nei peperoncini piccanti: la capsaicina. Ogni peperoncino piccante è la bacca di una qualche varietà di piante del genere Capsicum, originario della foresta pluviale amazzonica ma oggi coltivato in varie parti del mondo. Appartiene a una famiglia, le Solanaceae, di cui fanno parte piante utilizzate per l’alimentazione umana, come patate e pomodori, ma anche altre velenose.

Come altri alcaloidi (sostanze organiche che hanno effetti sugli organismi animali e in dosi massicce possono essere velenose), la capsaicina è una molecola antimicotica che risponde all’esigenza evolutiva della pianta di tenere lontani mammiferi predatori e funghi. Non tiene però lontani gli uccelli, insensibili alla capsaicina perché privi del recettore nervoso su cui agisce: condizione che permette loro di cibarsi delle bacche piccanti e alle piante di spargere i loro semi attraverso le loro feci.

La quantità di capsaicina determina la piccantezza del peperoncino, misurata convenzionalmente in punti sulla scala di Scoville, dal nome del chimico statunitense Wilbur Scoville, che ideò un procedimento abbastanza empirico nel 1912. Consisteva in un test in cui l’estratto del peperoncino di cui si intende misurare la piccantezza viene diluito in una soluzione di acqua e zucchero, e continua a essere diluito fino a quando un gruppo di assaggiatori non percepisce più alcuna piccantezza. Il test non è più utilizzato perché ha scarso rigore scientifico, ma la piccantezza è ancora misurata sulla scala di Scoville.

Il procedimento utilizzato attualmente per ottenere il punteggio di piccantezza è la cromatografia liquida ad alte prestazioni (o HPLC), un tipo di tecnica analitica che permette di separare le sostanze presenti in una soluzione e misurarne la concentrazione: nel caso del peperoncino la concentrazione di capsaicina. Il valore di piccantezza della capsaicina pura nella scala di Scoville è 16 milioni: la varietà di peperoncino attualmente più piccante al mondo, il Pepper X, ha un valore di 2.693.000 sulla scala di Scoville.

pepper X

Ed Currie regge dei Pepper X tra le mani a Fort Mill, in South Carolina, il 10 ottobre 2023 (AP Photo/Jeffrey Collins)

Per avere un’idea della piccantezza dei peperoncini più conosciuti sulla scala di Scoville, la varietà “jalapeño” ha un valore tra 4mila e 8mila, il peperoncino italiano tra 15mila e 30mila (ma ci sono varietà calabresi che arrivano a 100mila) e gli “habanero” tra 100mila e 300mila. Come ricordato da Currie in un recente episodio speciale di Hot Ones in cui ha presentato il Pepper X, la scala di Scoville è logaritmica, non lineare: significa che all’aumentare del valore la piccantezza non aumenta di una certa quantità ma si moltiplica per una certa quantità. Per questo motivo la varietà di peperoncino che ha da poco stabilito il record di piccantezza con un valore medio di quasi 2,7 milioni, pur avendo un valore inferiore al doppio di quello del record precedente – stabilito dal “Carolina reaper” (il “mietitore della Carolina”), con un valore medio di 1,64 milioni – è circa tre volte più piccante.

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«Ho sentito il bruciore per tre ore e mezza, poi sono arrivati i crampi. Sono orribili. Sono rimasto disteso a terra per circa un’ora sotto la pioggia, gemendo di dolore», ha raccontato Currie. Lui è uno degli esperti più conosciuti in una sottocultura di coltivatori e appassionati di peperoncini piccanti cresciuta molto negli ultimi anni, la cui principale attività è trafficare semi e incrociare piante per creare nuove varietà. Originario della South Carolina, Currie coltiva piante e peperoncini fin dagli anni Ottanta, ha lavorato nel settore bancario e dirige attualmente un’azienda di peperoncini e salse piccanti, la PuckerButt Pepper Company. In passato ha raccontato che questa passione lo aiutò a superare problemi di dipendenza negli anni Novanta.

Una delle principali difficoltà nel settore dei peperoncini piccanti è la stabilità della piccantezza delle nuove varietà, che spesso sono il risultato di esperimenti del tutto casuali. Parlando dell’origine del Carolina reaper, Currie ha raccontato che nel 2002 comprese di avere tra le mani un peperoncino da record dopo aver incrociato un “habanero”, i cui semi gli erano stati passati da un collega in banca, e un “Naga pakistano”, avuto da un amico del Michigan. Prima di poter essere considerata stabile e quindi una varietà distinta, la nuova pianta di peperoncino deve superare almeno otto generazioni di autoimpollinazione (il processo in cui il polline di un fiore cade sul pistillo del medesimo fiore o di un altro fiore della stessa pianta).

Carolina Reaper

Ed Currie regge tre Carolina reaper a Fort Mill, in South Carolina, il 12 dicembre 2013 (AP Photo/Jeffrey Collins)

Superata la quinta generazione, Currie fece analizzare il peperoncino a un chimico della Winthrop University, in South Carolina, nel 2010, e scoprì che il valore medio sulla scala di Scoville era di 1.474.000. Era quindi una piccantezza superiore rispetto a quella di qualsiasi altro peperoncino in circolazione all’epoca, incluso il “Ghost Pepper” (“peperoncino fantasma”, anche noto come “Bhut Jolokia”, che in lingua assamese vuol dire “peperoncino serpente”). Già di quest’ultimo, come raccontato dal New Yorker nel 2013, gli esperti che lo assaggiavano dicevano che era come mangiare lava, o aghi ardenti: come se «la punta della lingua venisse marchiata a fuoco con una punta di metallo arroventato».

La corsa al peperoncino più piccante in assoluto ha anche stimolato una certa fantasia nel dare i nomi alle nuove varietà: oltre al Pepper X e al Carolina reaper, entrambi creati da Currie, esistono l’“Armageddon”, il “Brain Strain” (qualcosa come “strappo del cervello”) e il “Trinidad 7-Pots”, così chiamato perché si dice che un solo peperoncino sia sufficiente per rendere piccanti sette pentole (pots) di stufato. La stabilità della piccantezza non dipende soltanto dalla varietà, ma anche da variabili come la temperatura dell’ambiente e i tempi di maturazione e di raccolta. Una stessa varietà può avere un contenuto di capsaicina diversa, se coltivata in un luogo anziché un altro.

Il modo in cui la capsaicina interagisce con i recettori del sistema nervoso è da decenni oggetto di studi e approfondimenti scientifici: mentre la molecola funziona abbastanza bene nel tenere lontani i mammiferi predatori, nel caso degli esseri umani induce una sorta di reazione di repulsione e attrazione definita «masochismo benigno» da Paul Rozin, uno psicologo statunitense della University of Pennsylvania che si è a lungo occupato delle sensazioni del gusto e del disgusto.

Da un lato la capsaicina induce la sensazione di bruciore, mediata dagli stessi recettori che inviano segnali al cervello quando beviamo o mangiamo qualcosa di caldo. È una sensazione ingannevole, perché generalmente il peperoncino non provoca danni a lungo termine (nel 2018 un uomo finì in ospedale nello stato di New York dopo aver mangiato un Carolina reaper in una gara, per un restringimento temporaneo dei vasi che portano il sangue al cervello). Dall’altro lato la capsaicina induce il corpo a rilasciare endorfine, attivando una specie di sistema antincendio: ragione per cui molte persone che mangiano peperoncino, soprattutto quelle abituate a farlo, sperimentano allo stesso tempo sensazioni di dolore e di piacere.

Peperoncini jalapeno

Peperoncini jalapeño (Scott Olson/Getty Images)

Come spiegato dal docente di orticoltura statunitense ed esperto di peperoncini Paul W. Bosland, il contenuto di capsaicina non è l’unica cosa che conta in un peperoncino piccante. È importante anche quello che Bosland chiama «profilo termico», cioè l’insieme di proprietà che definiscono la velocità con cui la sensazione di calore viene percepita dopo il boccone, se arriva in ritardo o quasi subito, sulla punta della lingua o in fondo alla gola.

Nel peperoncino conta anche il sapore, ovviamente. Quando alla fine degli anni Novanta l’azienda di prodotti alimentari messicani Old El Paso decise di utilizzare il sapore dei jalapeño ma non la capsaicina si rivolse a Bosland, che creò un jalapeño non piccante e per questa scoperta vinse nel 1999 il premio Ig Nobel per la biologia. È molto difficile percepire il sapore al di sopra di una certa piccantezza, secondo Bosland, ma Currie sostiene che forma e sapore rappresentino il 99 per cento del lavoro dei coltivatori, e che creare peperoncini eccezionalmente piccanti e che siano allo stesso tempo riconoscibili per il loro sapore sia proprio una delle parti più complicate del suo lavoro.

Riguardo al senso di produrre peperoncini così piccanti, oltre che gustosi, Currie ha detto che i peperoncini super piccanti hanno senso in termini di economia di scala. Permettono cioè di ottenere una determinata piccantezza, soprattutto su grandi volumi, utilizzando meno peperoncino di quanto ne servirebbe di un valore inferiore nella scala di Scoville.

Redazione IL POST

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