Social e disabilità: «I like (mi piace) non bastano»

Attivista per i diritti delle persone con disabilità, giornalista e social media manager, nel mondo dell’online è conosciuta anche come Pepitosa, interviene sul tema del numero di VITA magazine “Il sociale sui social” invitando a «uscire dallo stereotipo dell’immagine» perché «like e follower passano, l’importante è saper raccontare una comunità»

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di Antonietta Nembri – Vita.it

Sul suo sito si descrive così: “Nata seduta dal 1982, catapultata in un mondo che corre, mi occupo di parole da mettere in fila e contenuti che riempiono testa e cuore”. Online è conosciuta come “Pepitosa”, lei è Valentina Tomirotti, giornalista e social media manager. Dalla sua idea è nata, nel 2019, l’associazione Pepitosa in carrozza che ha l’obiettivo di essere un punto di riferimento del turismo accessibile per chi ha una disabilità motoria e vive in carrozzina. Molto attiva sui social da Facebook a Instagram è un’esperta in materia e con lei abbiamo voluto parlare del valore degli influencer nel mondo della disabilità. E il suo primo commento è: «Non basta avere una disabilità per essere un punto di riferimento, occorre anche essere divulgativi. Dietro al balletto, che ci può stare, serve un racconto. I like e i follower passano… ».

Cosa intende dire?

Purtroppo o per fortuna il mondo della disabilità non è universale, ognuno è diverso anche nel bisogno. Non mi piace l’idea dell’influencer come rappresentativo di una nicchia sociale. Per essere davvero rappresentativo deve saper raccontare. Per esempio io sono in carrozzina a motore e voglio prendere un treno ha senso se online racconto come faccio perché non ci si deve fermare allo stereotipo dell’immagine di una persona in carrozzina davanti a un treno.

Valentina Tomirotti Vert 1

Ci sono social come TikTok e Instagram che vivono di video e foto…

Sì a livello social le immagini e i video rappresentano di più, ma non bastano. E siamo i primi noi a dovere fare questo sforzo. Perché occorre iniziare a fare differenza tra influencer e attivisti. Attivista è chi porta avanti dei progetti e delle battaglie sociali. Per esempio io ultimamente mi sono occupata dei centri estivi perché molti non sono accessibili. Non sono un genitore, ma posso fare da eco e promoter perché con me ho una community attiva, una comunità che aiuta a svegliare gli animi.

Hai dei suggerimenti da dare ai tanti influencer che si occupano del mondo della disabilità?

Credo che la prima cosa da chiedersi sia che cosa si vuol fare da grandi! Anche online non ci si improvvisa, altrimenti si rischia di vivere solo della propria immagine. Inoltre bisogna stare attenti a non essere il fallimento del lavoro degli altri perché il modo in cui si affrontano certi temi e problemi non deve avere come obiettivo un like in più, ma lasciare il segno. Per esempio se una persona da 100mila follower scrive “io non vado a votare” va a rovinare una situazione, va contro un diritto. Da me non si sentirà mai un’affermazione che va contro un diritto. E la disabilità è ancora una causa per cui agire e far rispettare i diritti.

Online ci sono molte persone che affrontano i problemi con leggerezza e sembra una formula funzionante…

Non dico che non bisogna fare i balletti, si possono fare, certo, ma facciamo anche le persone serie. Se il balletto serve solo a mostrare un’immagine che sembra confermare uno standard non va bene, dietro al belletto deve sempre esserci un racconto, lo ripeto. Ma soprattutto facciamo in modo di far conoscere davvero il mondo della disabilità. Per me questo è un dovere etico.

In pratica?

Occorre fare attenzione al linguaggio, anche a quello visivo delle immagini perché il body shiming è un rischio a prescindere.

 

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