Fiore di Maggio – recensione del romanzo “Le madri non dormono mai” di Lorenzo Marone

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Amore di mamma: si dice di un amore senza fine, oltre ogni limite, istintivo e viscerale. Infinito e prezioso, eterno e insostituibile, tenero e burbero, dolce e solenne. Quello che è dedicato solo ai figli, senza risparmio, ad ogni costo. Pronta a tutto, ogni madre difende ad oltranza la prole, l’accarezza e la protegge, ama come nessun altro al mondo saprà amarti in vita tua: si intende qui l’Amore di Mamma con le maiuscole, quello che da sempre per chiunque, laici o devoti, si santifica nel mese di maggio.

di Bruno Izzo

Perché una madre in fondo questo è, un fiore di maggio: ed è un fiore che, come ti accarezza, sa farsi anche roccia all’occorrenza, è nato su uno scoglio e come tale fa da frangiflutti contro i burrascosi marosi dell’esistenza. Sempre e comunque, in ogni luogo. Fiore di maggio è l’omonima canzone di Fabio Concato, citata nel testo, ed è quanto di più adatto per descrivere le vere protagoniste del libro, le madri, che letteralmente non dormono mai per i loro figli, non ne hanno tempo, modo e soprattutto serenità per farlo, specie in un contesto affliggente come quello qui narrato. L’ultimo romanzo di Lorenzo Marone di questo parla, con la delicatezza, la prosa fluente e incisiva, la tenerezza e la sensibilità sua propria, di cui lo scrittore napoletano ha già dato prova tante altre volte. Qui Marone si riconferma alla grande, racconta con rispetto e discrezione di mamme, di donne che esplicano a modo loro, ma pur sempre al meglio possibile, un ruolo genitoriale nelle condizioni esistenziali più difficili.

Perché vivono, e diventano madri, in un contesto di degrado e di miseria, di ignoranza e di abbandono, di violenza e delinquenza: e per di più, quasi come diretta conseguenza, l’humus di origine le destina alla reclusione forzata. Con figli al seguito. “…senza i figli, quelle madri si riducevano all’osso. Senza i figli erano solo detenute.” La realtà, fragile e toccante, su cui Marone in questo libro ha focalizzato la sua attenzione facendone un garbato ambito narrativo, è l’ICAM, l’istituto di custodia attenuata per detenute madri. All’apparenza è una struttura di avanzata civiltà, un luogo di reclusione strutturato in guisa di miniappartamenti individuali senza sbarre o porte blindate, con spazi comuni di convivialità ed interazione sociale, con tanto di supporto medico e psicologico. All’apparenza: né più né meno è un carcere, che, come tutte le carceri finisce per racchiudere in una bolla tutti quelli al suo interno, liberi e reclusi, guardie e prigionieri, senza distinzioni di sorta. Un’umanità ristretta, quasi mai per scelta ma per necessità, siano essi vigilati che vigilanti, tutti insieme ma non appassionatamente forzati nella realtà aberrante di un carcere: davvero non il massimo dell’esistenza, quindi.

Figuriamoci quanto questo può valere per mamme che scontano, più o meno giustamente, è da vedersi, reati talmente gravi da richiedere la privazione della libertà personale; e quale effetto produce sui loro bambini in tenera età, ovviamente innocenti e però costretti ad analoga restrizione di spazi e respiri. Sarebbe come a dire, il tutto è peggio che andare di notte. Qui le responsabili di reati di vario genere, che sono anche madri di figli in tenera età, possono scontare la loro pena insieme ai loro piccoli da accudire, certamente sempre privati della libertà personale e comunque sotto custodia di agenti di vigilanza, tuttavia assicurandosi per i bimbi un minimo di salvaguardia del delicato equilibrio psicofisico di libera crescita, riducendo l’impatto nefasto di un qualsiasi regime carcerario con una parvenza di comune quotidiano familiare. “…la forza qui dentro non va usata, ci sono i minori.” I bambini assorbono tutto come spugne, la realtà carceraria normale si ripercuote negativamente sul loro crescere, allora interviene questo nuovo modo di gestire la pena delle madri, l’ICAM è un estremo tentativo della società di ricreare in qualche modo un habitat “normale”, che attenui i traumi infantili evitando disagi e disadattamento futuri. I figli crescono naturalmente in un contesto matriarcale, poiché i loro padri sono necessariamente esterni a tale dedicato luogo di reclusione, anche perchè più spesso sono essi stessi dediti ad atti delittuosi e pertanto rinchiusi in carceri comuni. I bambini crescono quindi con le loro mamme, come loro rinchiusi in una prigione a cielo aperto, ne escono per un minimo di necessaria interazione sociale con i coetanei “liberi”, con il supporto di volontari esterni al carcere, e naturalmente per andare come di consueto a scuola con un usuale scuolabus, che li preleva e li conduce agli istituti delle scuole primarie, e da cui dopo l’orario scolastico li riporta a “casa”, perché tale per loro è il carcere, spesso la sola casa che hanno conosciuto. E altrettanto spesso, è una casa anche migliore, pulita e dotata di servizi, cure mediche, dieta sana, non di rado se non sempre i piccoli provengono da territori abitativi arrangiati e fatiscenti, insalubri e deleteri per la loro crescita fisica e morale. Sono bambini destinati ad arrangiarsi da soli, a crescere in strada, ad imparare presto le leggi della violenza e della prevaricazione, vittime di brutalità o indifferenza, bullismo e prepotenze, arruolati giovanissimi nelle file della criminalità. Per questo le loro madri li tengono tenacemente con loro, non vogliono che debbano ripercorrere il loro stesso viatico esistenziale improntato all’illegalità, vogliono continuare ad accudirsene per distoglierli da un destino infame, lo stesso che ha ghermito le loro esistenze, temono il trascorrere degli anni perché arrivati all’età di dieci anni, purtroppo i bambini non possono più soggiornare con loro. “…Hai paura che tua figlia cresca in carcere? Il miglior futuro possibile per tua figlia, tra quelli che le sono rimasti, è con te.” Lo Stato, malgrado sforzi e buone intenzioni, mostra tutti i suoi limiti. L’Icam è predisposto per una accoglienza limitata ai tempi della prima infanzia, quando più è richiesta la figura materna come indispensabile supporto di sana crescita affettiva, terminata la quale, all’inizio della pubertà e adolescenza, che pure sono periodi delicatissimi, sciaguratamente la struttura non può far fronte ulteriormente alla congiunta accoglienza madre figli, e se le madri hanno ancora residui di pena da scontare, i piccoli saranno affidati a parenti o ad altri che possano prendersene carico, come le case famiglie, con tutte le conseguenze del caso. Più spesso deleterie per loro stessi e di converso per la società, ancora una volta fallimentare nel prendersi cura degli ultimi. Tutto quanto è il romanzo di Lorenzo Marone: ma non è solo una bella storia, che pure richiama un contesto e dinamiche socio esistenziali realmente esistenti, è un bel sentire soprattutto per il modo come il racconto si snoda, per come procede la narrazione, per la cura di confezione e contenuto. Un racconto delicato di madri, di crescita, di vite, di sonno che non arriva e sogni che non mancano, seppure di difficile realizzazione. Ma i desideri vanno prima sognati, e questi nessuno può limitarli. Tutta la trama è un insieme di punti di vista diversi e differenti, congiunti e discordanti, connessi e inconciliabili in tutti i sensi. Questo libro non è un contenitore di parole, ma un registro di voci. Lorenzo Marone ci fa ascoltare le versioni di Miriam e suo figlio Diego, delle guardie Miki e Leo Gramigna, della nigeriana Amina che di figli con sé ne ha due, Gambo e Adamu, della volontaria Vittoria, di Anna messa male in salute che pure è responsabile della piccola Jennifer che ha con sé, e fuori di un figlio di venti anni abbandonato a sé stesso, con il marito in un penitenziario. Ascoltiamo la voce del direttore Giacomo Parisi e della psicologa Greta, persone encomiabili per sforzi ed impegno, per quanto insufficienti, e leggiamo quanto scritto sul quaderno delle parole belle, libere, solari, vergate dalla dolcissima Melina. I personaggi sono precisi, lineari, iscritti con tenacia sulla carta e però incredibilmente fragili, mirabilmente umani, Marone ha una sensibilità straordinaria, non scrive del buono o della bontà, fa invece trasparire spontaneamente dalle sue figure la mitezza e la dolcezza, la mansuetudine e la clemenza, insita in tutti quanti si avvicendano nei capitoli, su uno sfondo di precarietà, insicurezze, problematicità che insistono generando un sopravvivere illegale di obbligato teppismo e malvivenza. “…Gentilezza viene prima della fiducia.” I protagonisti parlano di sé e del loro vissuto, di cosa vedono e di come vivono, il romanzo descrive mamma e figli, di come vedono e cosa pensano delle vite delle altre madri e degli altri figli, include nel racconto chi i figli non li ha, o non li ha avuti, o che li vuole e li desidera. Il finale, tragico, struggente, ardente e doloroso insieme, non è più una voce registrata, ma visto che si parla di un libro, è uno scritto, una lettera, che gronda parole d’amore, che insegnano, fanno riflettere, pensieri che sono i sogni delle madri che non dormono mai: “…ho capito pure un’altra cosa, che la gente non se ne fotte niente perché non conosce, perché quando incontri una persona e le vuoi bene allora te ne importa…io ti ho incontrato, e ti ho conosciuto, e ora ci tengo assai a te. E quindi penso che bisogna muoversi e incontrare a tutti quanti nella vita perché se no non vuoi bene a nisciuno, ma allora che campi a fare?” Questa lettera è incredibile, spiega la vita con semplicità, il finale è emblematico di cosa accade a togliere un figlio ad un fiore di maggio: diveniamo tutti, uomini e donne, rocce. Non scogli del mare, ma pietre aride sotto un sole spietato.

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