Ciclismo, Francesca Baroni: “Sono una normalissima sorda, voglio vincere corse importanti e diventare poliziotta”

Ventidue anni, quinta ai Mondiali di ciclocross, in gara contro atlete che ci sentono: "Rispetto gli atleti paralimpici, ma credo che le barriere si possano abbattere solo gareggiando contro chi gli handicap non li ha". Ma che finora le hanno impedito di partecipare ai bandi per entrare nelle Forze Armate: "È una legge, ma le leggi si cambiano"

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VIAREGGIO. Francesca sposta i lunghi capelli dall’orecchio, si piega un po’ in avanti e mostra l’apparecchio acustico. “Vede? Lo porto da quand’ero piccolissima. Quando avevo dieci mesi, i miei genitori scoprirono che ero completamente sorda e iniziò subito un percorso di rieducazione ortofonica. Ci ho messo dieci anni per imparare a leggere le labbra e per capire che il mondo è fatto di suoni e rumori, non di silenzio”.

Il silenzio non appartiene a Francesca Baroni, 22 anni, quattro volte campionessa italiana di ciclocross, quinta ai mondiali, in gara contro quelle che ci sentono. E quasi sempre vince lei. “Io stimo e rispetto tantissimo gli atleti paralimpici, sia chiaro, ma credo che le barriere dell’handicap si possano abbattere solo gareggiando contro chi gli handicap non li ha. Quando, naturalmente, questo sia possibile. Non bisogna restare nel recinto”. I sordi, in ogni caso, non fanno parte del programma delle Paralimpiadi: “Noi abbiamo quelli che chiamano Giochi silenziosi, però mi sembrano un contentino. Io credo nelle pari opportunità, e se ho un limite cercherò di superarlo. Io sono normalissima, una normalissima sorda”.

Pedalare in sordità significa tante cose. “In allenamento, sento arrivare automobili e camion dalle vibrazioni che producono. In gara, lo start non può essere dato dallo sparo o da un fischietto, ma da un braccio che si alza o da una bandierina. Piccoli accorgimenti. Senza il labiale non mi serve portare auricolari, quegli aggeggi che ormai hanno trasformato i ciclisti in omini radiocomandati: ha ragione Moser, bisognerebbe strapparli e buttarli nel fosso perché cancellano la creatività. In corsa, gli ordini del direttore sportivo mi vengono trasmessi dalle compagne e io li leggo sulla loro bocca”. Eppure basterebbe una piccola modifica al computer di bordo che ogni ciclista, ormai anche l’ultimo degli amatori, ha sul manubrio: “Si dovrebbe poter ricevere messaggi e notifiche come sui cellulari, che nelle gare sono vietati. Basterebbe questo, ma chi scrive i regolamenti non ci sente, se posso fare la battuta”.

La sordità del mondo dello sport: questo è il problema. “La mia disabilità mi impedisce di essere arruolata nei corpi militari e di avere un posto di lavoro anche dopo la carriera agonistica, come quasi tutte le mie colleghe in Nazionale. Niente Polizia, Fiamme Gialle o Fiamme Oro. È una legge dello Stato, ma le leggi si cambiano: sarei fiera di diventare la prima sorda poliziotta”.

Francesca sembra un uccellino, ma pedala come un’assatanata nel fango e nella neve. Le sue labbra scandiscono le parole quasi alla perfezione: “E’ una dote naturale, i sordi quasi sempre diventano muti e non tutti riescono a parlare come me”. Il suo papà Luca ci racconta che Francesca ha anche imparato l’inglese: “Non vuole vantarsi ma è bravissima. Quando era molto piccola, se io arrivavo e lei era girata, non mi sentiva e si spaventava. Si chiama sordità profonda bilaterale, è una patologia genetica ma si può fare tanto per combatterla, nel nostro caso il grande merito è di mia moglie Alessandra. La prima volta che Francesca mi chiamò papà, aveva tre anni e mezzo: quel giorno mi sono messo un orecchino per non dimenticarlo mai”. La ragazza lo guarda e sorride. “Ricordo quando prendevamo il treno per Firenze tre volte la settimana per la rieducazione, ero una bambinetta e ormai mi trattavano come una mascotte, i pendolari mi conoscevano e mi portavano le caramelle”. Suoni e rumori sono entrati dentro di lei come viandanti sconosciuti, presenze straniere adesso domestiche: “Gli auricolari mi aiutano tanto, però posso capire le parole degli altri soltanto attraverso il labiale. Per questo non posso usare il telefono, anche se per fortuna ci sono le videochiamate. Negli apparecchi acustici mi arriva una sorta di sottofondo, come quando voi sentite un televisore al piano di sopra col volume alto: capite che è acceso, ma non distinguete le parole”.

Lo sport non come rifugio, consolazione o ghetto, ma come sfida alla pari: “Avevo sei anni, vidi Ivan Basso in tivù e mi innamorai quando vinse il Giro d’Italia. Allora chiesi a mamma e papà se c’erano corse in bicicletta per le bambine: è cominciata così”. Il Giro d’Italia, ma di ciclocross, lo avrebbe vinto un giorno anche Francesca: “Non mi sono mai sentita trattata come una disabile. Compagne e avversarie hanno fatto in fretta ad abituarsi a me. Per tutti io sono Francesca Baroni, non Francesca Baroni sorda. Quando ho vinto il primo campionato italiano, la Polizia mi mandò a casa il bando per l’arruolamento: non sapevano del mio handicap, lessi il testo e capii che non c’era niente da fare. Ma può non essere così per sempre”.

Francesca sposta i capelli e accarezza quella scatolina di plastica a forma di fagiolo, la sua porta per fare entrare il frastuono della vita. “Però basta poco, se un temporale mi coglie di sorpresa senza ombrello posso buttare via tutto”. Ci sono stati anche momenti di scoramento: a ottobre aveva deciso di smettere con il ciclismo, perché i calendari della strada e del ciclocross non le permettevano di correre come voleva, poi ha resistito e adesso eccola qui. “Voglio vincere la maglia tricolore delle professioniste del ciclocross e qualche corsa importante su strada, voglio un computer con i messaggini sul manubrio e un’assunzione nelle Forze Armate”.

E, senza offesa, niente Giochi Silenziosi. Perché non è nel silenzio che Francesca vive.

 

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