Da Mori a Teheran a caccia della sua grande occasione. Alessandra Campedelli dal 2 gennaio è il nuovo ct dell’Iran femminile di volley.
È la prima volta di un’italiana. Nata a Mori e docente alle scuole medie di Villalagarina, negli ultimi anni ha guidato la Nazionale italiana sorde a risultati incredibili come l’oro europeo e il doppio argento olimpico e mondiale. Il nostro Paese però non offre alle donne la possibilità di allenare ad alto livello e allora a 47 anni è arrivato per lei il momento di giocarsi le sue carte a 5mila chilometri da casa.
Dove possiamo iniziare per raccontare la sua storia?
«Dalla passione per il mio lavoro: l’insegnamento. Continuerò a svolgerlo nei prossimi mesi pur prendendo anche periodi di aspettativa non retribuita. Vengo da un diploma di liceo scientifico a cui ho aggiunto la maturità magistrale proprio per poter insegnare. Sono arrivate poi la laurea Isef, quella specialistica in Scienze e tecniche dello sport e fra pochi esami anche quella in Psicologia per accedere al master in Psicologia dello sport».
A livello sportivo invece non nasce con il volley.
«Mi sono avvicinata grazie al padre dei miei figli Nicolò e Riccardo nel 1999 ma avevo già alle spalle dieci anni a livello nazionale con l’hockey su prato che mi aveva fornito una spiccata mentalità sportiva. Nella pallavolo ho avuto la fortuna di potermi formare subito ad alto livello e lavorare nei vivai di club importanti».
La Nazionale sorde è stata la sua prima sfida?
«Ho conosciuto il movimento per dare a mio figlio non udente Riccardo un’occasione. Dopo la panchina di Brescia è arrivata quella della Nazionale nel 2016 e un palmares importante ma non sono le medaglie che contano. Sono felice per la visibilità avuta dal movimento che ha creato anche le selezioni Under 17 e 21 e sono cresciuta come allenatrice».
Cosa le ha dato questa esperienza?
«La capacità di andare oltre quello che si vede, una maggiore attenzione e l’abilità di dire poche cose nell’ordine più efficace. È una competenza fondamentale e infatti tanti colleghi mi hanno affiancata per svilupparla. A partire da Angiolino Frigoni, mio vice l’anno scorso e pochi mesi fa ct dell’Italia maschile che ha vinto il Mondiale Under 21».
Sport e disabilità in Italia sono ancora mondi separati?
«Ci sono barriere altissime ma è un problema di cultura sportiva generale. In Iran invece ci sono strutture e risorse imponenti dedicate allo sport. Ho visto centri sportivi di club degni della nostra Acqua Acetosa (fulcro dell’attività Coni a Roma, ndr). Non solo: a fine carriera gli atleti vengono assunti in società per le capacità di lavoro di squadra nel superare gli ostacoli. Valori che in Italia non vengono riconosciuti e infatti chi fa sport spesso deve smettere per cercarsi un altro lavoro».
Come nasce l’idea di candidarsi per la panchina dell’Iran?
«Semplicemente volevo la mia occasione. In Italia le possibilità ad alto livello vengono solitamente offerte ai maschi. Le donne spesso sono impiegate come fisioterapiste, scoutman o team manager. Ormai è un dato di fatto che la stragrande maggioranza degli allenatori di alto livello sia composta da maschi nonostante tante allenatrici brave e meritevoli di un’occasione. Attenzione: non è un problema di colleghi. Ho uno stretto confronto alla pari con professionisti come Velasco, Mazzanti, Mencarelli, Bonitta, Piazza o Lorenzetti che mi offrono spunti di crescita continua. Il problema è culturale».
Quale è stato il percorso per arrivare alla federazione iraniana?
«Ho saputo che cercavano un coach donna straniero e due anni fa ho mandato il curriculum. Sono stati impressionati dalla mia formazione culturale e sportiva anche a livello giovanile, hanno parlato con Velasco che ha confermato tutto e dopo questo periodo in cui è cambiato il mondo hanno avuto la forza e la coerenza di ricontattarmi. Ero in lizza con quattro colleghe ma a fine novembre sono stata scelta».
Cosa porterà della sua terra in questa avventura?
«La determinazione trentina, l’ostinazione a raggiungere un obiettivo impegnandosi al massimo. Inoltre sono una persona che riconosce da dove è partita e sa essere grata per le proprie origini».
Sono stati fissati degli obiettivi?
«Migliorare il ranking puntando ad una semifinale asiatica. Vuol dire entrare in un poker che comprende Cina, Giappone, Corea e Thailandia che sono tra le migliori venti al mondo. È un obiettivo ambizioso ma non mi piace vincere facile. Inoltre sarò supervisore delle selezioni Under 17, 19 e 23 e dovrò aiutare a dare un impronta alla pallavolo giovanile e agli allenatori. È estremamente motivante».
Gli accordi prevedono la sua permanenza in Iran?
«Per ora sono stata là due settimane e tornerò a fine gennaio per restare fino a giugno. Ho chiesto un contratto 1+1 e voglio prendermi del tempo per conoscere i club, gli allenatori e le ragazze esplorando tutte le province. Abiterò in un campus a Teheran e viaggerò per tutto il Paese. Solo al termine di questo periodo stilerò una proposta precisa per la federazione».
Quale è stato l’impatto con la realtà iraniana?
«Ho notato cultura e orgoglio, ma anche rispetto per il lavoro degli altri e capacità di riconoscere il valore delle risorse. È un terreno fertile ricco di opportunità incredibili che aspetta solo di ricevere i giusti input e che penso potrà aiutarmi anche a riscoprire alcuni valori genuini. Inoltre mi ha sorpreso la presenza di tante donne in ruoli strategici, donne capaci di fare squadra senza invidie».
Cosa significa essere donna in Iran?
«Voglio sfatare il mito della donna sottomessa perché porta il velo. Sono donne consapevoli che scelgono di indossare un simbolo che fa parte della loro cultura. Lo portano corto o lungo, scuro o colorato ma non lo vivono come un peso. Nessuno mi ha mai obbligata a metterlo ma ho scelto di farlo come forma di rispetto e non mi condiziona in alcun modo».
Si sente una pioniera?
«Abbastanza. Tante donne mi stanno scrivendo che non avrebbero avuto il coraggio di fare la mia scelta. Non è questione di coraggio ma di voler affrontare una sfida sapendo che male che vada ne uscirò arricchita sul piano umano e professionale. Ho anche la fortuna di avere una famiglia che mi sostiene. Nicolò gioca in A2 e Riccardo dopo la maturità andrà a Milano, sanno che tante scelte in passato sono state fatte pensando a loro e adesso mi hanno spinta a vivere la mia occasione».